Storia

La caduta di Pantelleria nel 1943

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di Francesco Lamendola

Pantelleria è un’isola piuttosto piccola (83 kmq.: appena un terzo di Malta), rocciosa (m. 836 s.l.m.) e priva di sorgenti d’acqua dolce, ma di enorme importanza strategica poiché, posta nel canale di Sicilia fra la Tunisia e la Sicilia, domina l’unica via di comunicazione fra il Mediterraneo occidentale e quello centro-orientale. Dopo la resa delle forze italo-tedesche in Tunisia, avvenuta il 12 maggio per le truppe del generale von Arnim ed il 13 per quelle del generale Messe, la campagna d’Africa si era definitivamente conclusa e gli eserciti anglo-americani dominavano tutte le coste meridionali del Mediterraneo, dallo Stretto di Gibilterra al Canale di Suez.
Mentre i soldati italiani e tedeschi venivano avviati alle loro destinazioni nei campi di prigionia, gli Alleati impiegarono alcune settimane per riorganizzarsi, per concentrare le loro forze aeronavali e per decidere le prossime operazioni. Churchill, coerente con le sue convinzioni di sempre, premeva per un attacco al “ventre molle” dell’Asse, ma aveva in mente più la Grecia che l’Italia. Infatti, a guerra finita, le potenze vincitrici si sarebbero accordate presumibilmente sulla basse dell’uti possidetis: e il primo ministro britannico temeva fortemente – e a ragione, dal suo punto di vista – una avanzata sovietica verso l’Egeo e l’Adriatico. Lo avrebbe dimostrato l’intervento britannico nella guerra civile greca, al termine della seconda guerra mondiale. Churchill continuava a ragionare in termini di potenza imperiale britannica, non aveva compreso affatto che proprio la vittoria degli Alleati avrebbe reso inevitabile l’indipendenza dell’India e la decolonizzazione dell’Africa e del Medio Oriente; per cui considerava di vitale importanza conservare la preminenza inglese nel Mediterraneo e tener lontano dalle sue rive le ambizioni sovietiche (come già l’Inghilterra vittoriana aveva fatto con la Russia zarista).
Gli Americani, tuttavia, pensavano piuttosto all’apertura di un secondo fronte nella Francia del nord, per tener fede alle promesse fatte a Stalin e poi ripetutamente procrastinate. Insomma, se è certo che la conquista della Sicilia rientrava nei piani strategici anglo-americani fin dalla caduta della Tunisia, è altrettanto certo che tali piani non prevedevano, allora, uno sbarco nell’Italia meridionale e una lunga e difficile avanzata verso la Pianura Padana. Non era da lì che si sarebbe potuta colpire al cuore la “fortezza Europa”, ma mediante uno sbarco in Normandia, che avrebbe portatogli eserciti anglo-americani in vicinanza del cuore industriale e strategico della Germania.
Quanto all’ipotesi della Grecia, effettuare uno sbarco nel Peloponneso avrebbe permesso di vincolare grosse forze italiane e tedesche nello scacchiere dei Balcani; e, con le armate germaniche impegnate nella durissima battaglia di Kursk contro i sovietici, ciò avrebbe messo in crisi tutto il dispositivo dell’Asse in un momento particolarmente critico. Si aggiunga che, nella battaglia dell’Atlantico, le forze navali anglo-americane avevano ormai rovesciato le sorti della lotta contro i sommergibili tedeschi e che il nuovo tonnellaggio fornito dai cantieri navali alleati ormai compensava largamente quello affondato, a prezzo di durissimi sacrifici e di perdite sempre più gravi, dagli equipaggi degli U-boote dell’ammiraglio Dönitz.
Non è questa la sede per indagare nel dettaglio come i Comandi alleati giunsero a scartare sia l’ipotesi Francia, sia l’ipotesi Grecia, poiché questo ci porterebbe in un contesto politico-diplomatico estremamente complesso, mentre qui desideriamo soffermarci principalmente sull’aspetto militare dell’operazione contro Pantelleria. Ma il fatto è quello. Ad ogni modo, non pare che i Comandi alleati avessero deciso, fin dall’indomani della caduta di Tunisi, di sviluppare una operazione a fondo contro l’Italia, mirante a staccarla dall’alleanza con la Germania e costringerla alla capitolazione; ciò che, senza dubbio, avrebbe avuto quale effetto inevitabile la caduta del fascismo.
Nonostante la loro schiacciante superiorità militare, industriale e finanziaria, le massime autorità politico-militari della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d’America erano lungi dall’immaginare che l’Italia fosse ormai così vicina al tracollo.

Scrive in proposito lo storico Emilio Canevari: “Le forze tedesche che esistevano nell’Italia meridionale e i rinforzi promessi, specialmente di artiglieria contraerea e altro materiale sarebbero stati in quel momento idonei a tenere saldamente l’Italia anche perché uno sbarco nemico nella penisola non era prevedibile ,in quanto strategicamente errato.
“Difatti risulta in modo esplicito dall’insieme delle memorie di Eisenhower che gli americani intendevano occupare solamente la Sicilia, per aprirsi il passaggio nel Mediterraneo e che Churchill guardava sopra tutto ai Balcani, ove avrebbe voluto sbarcare per prevenire la Russia.
“Lo stesso generale castellano scrive, riportando la dichiarazione di un alto ufficiale britannico: «Lo Stato maggiore alleato non aveva considerato nei suoi piani originari l’invasione dell’Italia continentale. La campagna del Mediterraneo doveva terminare con la conquista della Sicilia, perché si riteneva di non aver forze sufficienti per progredire oltre». “Infatti, dopo la conquista della Sicilia Eisenhower mandò in Inghilterra ben 7 divisioni per iniziare la preparazione dello sbarco in Francia e lasciò nel Mediterraneo solo 4 divisioni di riserva, fra cui una di paracadutisti. “Ciò era logico, perché, nonostante i disegni politici di Churchill, il teatro principale delle operazioni non poteva essere, per gli angolamericani, che la Francia settentrionale. “Impiegare in Italia delle forze, che sarebbero state tenute a bada lungo la penisola da pochissime truppe tedesche, sarebbe stato, come fu, un grosso errore strategico. E ad esso gli americani furono indotti solo dalle invocazioni di sbarco da parte di Badoglio, come diremo. (1)

Dello stesso parere, quanto all’erroneo concetto strategico alleato, è lo storico Marco Picone Chiodo, che scrive: “Strategicamente lo sbarco in Sicilia peccava di logica militare, tanto che italiani e tedeschi lo avevano praticamente escluso in partenza, propendendo piuttosto per i più validi obiettivi della Sardegna e poi della Corsica. Considerazioni esatte, ma che avevano il difetto di ignorare i veri motivi che inducevano gli Alleati a scegliere l’isola più meridionale: motivi non solo militari.” (2) Certo, c’erano stati degli indizi di cedimento morale da parte della popolazione italiana, che agli Alleati non erano sicuramente sfuggiti. In particolare vi erano stati i grandi scioperi nelle fabbriche del Nord che, nel marzo del 1943, avevano suonato come una campana a morto per il regime mussoliniano; ma, pur prevedendo che il paese non avrebbe potuto resistere ancora a lungo, non vi erano indizi evidenti che i tempi fossero maturi per assestargli il colpo definitivo. Se quel che restava della flotta italiana – un complesso, peraltro, ancora imponente – era costretto da mesi a rimanersene in porto, a Taranto e La Spezia, per mancanza di combustibile e di adeguata protezione aerea; e se l’aviazione era praticamente cancellata dai cieli della Penisola, tuttavia l’esercito era ancora relativamente numeroso e, fino a quel momento, non aveva dovuto battersi per la difesa dei confini nazionali. Nella campagna d’Africa, da El Alamein a Capo Bon, le truppe italiane, benché quasi appiedate, si erano battute in modo superbo, tanto da strappare commenti ammirati da parte dei loro alleati. Così von Arnim, al momento della capitolazione delle proprie truppe, aveva rivolto un cavalleresco saluto ai camerati italiani, con poche vibranti parole: “Truppe italiane, specialmente artiglieria, si sono battute magnificamente, degne loro gloria.” Però quelle valorose truppe, temprate da tre anni di guerra nel deserto del Nord Africa, erano ormai cadute prigioniere; e quelle che si apprestavano a difendere il territorio metropolitano erano di tutt’altro livello, dato che non avevano mai combattuto prima d’allora e che il loro morale era piuttosto basso.
Nel giugno del 1943, esattamente dopo tre anni di guerra, l’esercito italiano costituiva ancora uno strumento bellico possente, ma solo sulla carta. La disorganizzazione, la mancanza di armi moderne e soprattutto carri armati di medio e grosso tonnellaggio, l’incompetenza dei comandi e l’esaurimento delle materie prime necessarie all’industria – causa di una dipendenza sempre più grave nei confronti dell’alleato germanico – ne limitavano di molto le possibilità di impiego. A tutto ciò si aggiungevano la mancanza di addestramento delle nuove leve; il progressivo cedimento del fronte interno (di cui gli scioperi di Torino, Milano e Genova erano stati un segnale eloquente); e l’intensificarsi della guerriglia da parte delle bande partigiane slave in Dalmazia e Slovenia (le due province annesse nel 1941, dopo il crollo della Jugoslavia) e perfino nella Venezia Giulia (annessa col trattato di Rapallo del lontano 1920) e nell’hinterland di Fiume, nonché in Croazia, Montenegro, Albania, Grecia. Nel marzo del 1943 il vice-federale di Spalato era stato ucciso dai partigiani croati in pieno centro cittadino, e ciò aveva mostrato come ormai neppure le dure repressioni condotte contro la guerriglia slava fossero valse a tener lontana la minaccia dalle città della costa. E infine, da ultimo ma non per ultimo, l’effetto materiale e morale dei bombardamenti aerei che le “fortezze volanti” angloamericane conducevano ormai pressoché indisturbate, anche in pieno giorno, contro tutte le città italiane, talvolta accompagnate da atrocità gratuite (come il mitragliamento, a Grosseto, dei bambini che si divertivano sulle giostre) al preciso scopo di terrorizzare la popolazione civile e affrettare così il momento della resa. E fin dove potesse giungere questa politica del terrore freddamente pianificata lo si vide nel martirio di Zara, la città dalmata già assegnata all’Italia dal trattato di Rapallo, che fu sottoposta al martellamento di ondate su ondate di aerei anglo-americani, senza alcuna particolare ragione strategico-militare, e che alla fine vide distrutti il 75% dei suoi edifici pubblici. Forse, a Londra e a Washington (e d’accordo con Mosca), si era già stabilito che Zara dovesse andare alla Jugoslavia; e, distruggendola selvaggiamente, si volle preparare il terreno per tale cessione, facendone al tempo stesso un terribile laboratorio (sullo stile di Guernica) di cui poi, a guerra finita, nessuno avrebbe più parlato.
Una circostanza particolarmente allarmante, dal punto di vista strategico, era che l’esercito italiano – nell’estate del 1943 – si trovava sparpagliato su diversi e molteplici scacchieri europei, e solo una modesta frazione di esso, qualitativamente non la migliore, era disponibile per la difesa del suolo patrio. Precisamente, su una forza complessiva di 59 divisioni di linea (che salivano, in teoria, a 85 comprese le unità di difesa mobile, di scarsissima efficienza combattiva; e delle quali 10 erano in fase di ricostituzione), ben 36 erano all’estero, e cioè 3 nella Francia meridionale, 2 in Corsica, 9 in Slovenia e Croazia, 12 in Montenegro e Albania, 8 in Grecia e 2 nelle isole del Dodecanneso (Mare Egeo). Pertanto ne rimanevano appena 13 per coprire la Penisola, comprese le isole maggiori (Sicilia e Sardegna), ove era da temersi il prossimo attacco nemico. In compenso, contingenti sempre più numerosi di truppe tedesche, con artiglieria e carri armati, stavano scendendo in Italia, 7 divisioni alla data del 10 luglio (2): in teoria per sostenere l’alleato nel difficile momento che attraversando, ma – in pratica – anche per assicurarsi il possesso delle posizioni-chiave nel caso di un suo cedimento o di un suo voltafaccia improvviso. E il generale Ambrosio, nostro Capo di Stato Maggiore generale, premeva perché le divisioni tedesche fossero portate addirittura a 20; il che, fra l’altro, avrebbe comportato difficoltà di approvvigionamento, nell’Italia affamata dell’estate 1943, quasi insolubili.

Le operazioni angloamericane per la conquista di Pantelleria, nel giugno del 1943, venivano così ad acquistare un significato particolare non solo dal punto di vista strettamente strategico-militate, ma anche psicologico e politico. Si trattava, in buona sostanza, di vedere se l’esercito italiano era veramente determinato a battersi per l’integrità della Patria, come aveva dimostrato di saper fare nel novembre del 1917, sul Piave, dopo la disfatta di Caporetto; se la marina avrebbe continuato a starsene al sicuro in porto, o se avrebbe tentato il tutto per tutto, come quella tedesca aveva avuto intenzione di fare nel novembre del 1918, prima della capitolazione; infine, se il morale della popolazione avrebbe retto alla tensione di una guerra ormai combattuta in casa e se avrebbe continuato ad aver fiducia nel governo che lo aveva trascinato in quella tragica avventura, di cui si cominciava a intravedere la fine impietosa.
Non parliamo, in questa sede, dei segreti abboccamenti che erano in corso, e da tempo, fra esponenti dell’esercito (soprattutto della Regia marina), della corte e dello stesso regime fascista, ed emissari dei governi di Londra e Washington. Sono vicende dolorose e non ancora del tutto chiarite, sebbene si sia cominciato a far luce su di esse fin dagli anni Settanta del Novecento, con le coraggiose inchieste di Antonino Trizzino (specialmente con Navi e poltrone, Milano, Longanesi & C., 1966) e Franco Bandini (specialmente Tecnica della sconfitta, Milano, Longanesi & C., 2 voll., 1969), che hanno dato anche luogo ad azione giudiziarie le quali hanno avuti il merito di far emergere il clima di fronda, se non di vero e proprio tradimento, che ormai si era diffuso in una parte dei vertici politici e militari dello Stato.

Ad ogni modo, dopo l’inconcludente convegno di Feltre fra Mussolini e Hitler del 19-20 luglio1943, si era diffusa, ai più alti livelli dell’esercito, la netta sensazione che il regime fascista fosse impossibilitato a sciogliersi dall’abbraccio soffocante della Germania e che la guerra fosse irrimediabilmente perduta.

Vero è che, a Feltre, il nuovo Capo di Stato Maggiore, Ambrosio (nominato al posto di Cavallero), aveva inutilmente sollecitato Mussolini a porre Hitler davanti all’aut-aut: o aumentare significativamente gli aiuti all’Italia, o dichiarargli francamente la necessità di concludere un armistizio separato con gli Alleati. Ma vi era una palese contraddizione nell’atteggiamento di

Ambrosio che, da un lato, chiedeva un ulteriore, enorme potenziamento del dispositivo tedesco in Italia, dall’altro suggeriva a Mussolini la necessità di rescindere il trattato di alleanza con la Germania (e che, all’indomani di Feltre, avrebbe svolto un ruolo importante nella defenestrazione di Mussolini).

Molto più saggio sarebbe stato ritirare gradualmente le divisioni italiane dislocate all’estero, per rafforzare le difese del territorio nazionale e, in particolare, della Sicilia, chiedendo all’alleato tedesco di sostituire tali unità in Francia, nei Balcani e nelle isole greche. Ma ciò non si volle fare, essenzialmente per motivi di politica estera: si pensò che ritirarsi dalla Francia, dalla Jugoslavia e dalla Grecia sarebbe stato come rinunciare a tutte le conquiste fatte e porsi in stato di totale inferiorità di fronte alla Germania. Eppure, come non vedere che ogni nuova divisione tedesca che scendeva in Italia costituiva una grave ipoteca politica, non per il prestigio e per l’espansione dell’Italia fuori dei suoi confini, ma per la sua stessa sovranità e indipendenza? L’isola di Pantelleria, negli anni precedenti, era stata potentemente fortificata, per volontà esplicita dello stesso Mussolini – che ne aveva compreso l’importanza strategica alcuni ani prima dello scoppio della guerra -, su progetto del celebre ingegnere e architetto Pier Luigi Nervi, specializzato nelle costruzioni di cemento armato (autore, fra l’altro, del progetto del Palazzo delle Esposizioni di Torino e del Palazzetto dello Sport di Roma). Di modo che, se un paragone dell’isola di Pantelleria con le isole giapponesi di Jiwo Jima e di Okinawa appare eccessivo, quanto a capacità di resistenza contro un invasore proveniente dal mare, la si può tuttavia pensare come una grande portaerei ancorata in mezzo al Canale di Sicilia; ma una portaerei che aveva l’evidente vantaggio di essere inaffondabile.

Ecco come lo storico Amedeo Tosti descrive le vicende che portarono alla caduta dell’isola nelle mani degli Anglo-Americani: “Se pure, nei primi giorni succeduti all’occupazione integrale della Tunisia, poteva sussistere ancora qualche dubbio circa i propositi degli Anglosassoni, andò poi apparendo sempre più chiaro che le considerazioni di carattere geografico-strategico, e principalmente il grande interesse della via marittima mediterranea e la eccezionale influenza che su di essa esercita il possesso della Sicilia, avrebbero indotto gli avversari ad un attacco contro la Sicilia. E tale convincimento si andò, poi, sempre accentuando durante la fase finale della preparazione, nel corso della quale i Comandi anglosassoni si preoccuparono di assicurarsi una netta prevalenza aerea nella regione  unisina e nel Canale di Sicilia e di conferire una elevata efficienza alla difesa contraerea dei porti e delle città della Tunisia.

“Ogni dubbio, infine, doveva scomparire, allorquando, tre settimane circa dopo la conclusione della campagna tunisina vennero iniziati attacchi di aerei in massa ed anche di nutrite formazioni navali contro le isole di Pantelleria e di Lampedusa: l’insistenza di quegli attacchi dimostrava come gli Anglo-Americani intendessero impossessarsi di quelle due isole, considerando tale occupazione come un preliminare necessario ad altri e più importanti tentativi contro la Sicilia e, fors’anche, contro il continente. “Pantelleria resistette per più giorni, tenacemente, ai massicci attacchi avversari; annidati su quei due cocuzzoli che precipitano al mare, a mezza strada tra la Sicilia e Capo Bon, con ripidi salti di roccia, i difensori dell’isola tennero impavidamente testa per giorni e giorni, a tutti gli attacchi, infliggendo all’avversario perdite notevoli, specie di aeroplani: oltre un centinaio di questi, infatti, precipitavano sotto i colpi precisi delle artiglierie contraeree; e meno vigile e pronto si manteneva l’intervento delle artiglierie della difesa costiera, le quali costringevano talune unità navali avversarie, che avevano tentato di avvicinarsi all’isola, a tornare indietro in tutta fretta, non senza recare nei loro fianchi i segni dei colpi ricevuti. E ad una prima intimazione di resa; fatta loro per venire per le vie del cielo, i reparti preposti alla difesa dell’isola rispondevano col silenzio. “Altrettanto valorosamente ed efficacemente resisteva l’altra piccola isola di Lampedusa – molto più piccola di Pantelleria, poiché mentre questa ha un’estensione di 83 kmq., l’altra supera appena i 20 – sita a metà cammino tra Malta e la costa tunisina. Di essa i Britannici tentarono di impadronirsi con un colpo di mano il giorno 8 giugno, ma la guarnigione dell’isola prontamente reagì all’attacco, riuscendo anche ad affondare alcuni mezzi di trasporto e ad annientare i pochi soldati nemici che avevano potuto porre piede a terra. “Le offese contro quei due ‘paracarri’ del Mediterraneo venivano, quindi, intensificate: centinaia di tonnellate di acciaio e di esplosivo venivano lanciate su di esse dalle navi e dagli aerei, ed al presidio di Pantelleria veniva fatto pervenire, a firma del generale Spaatz, un altro invito ala resa incondizionata; invito cui toccò la stessa sorte del precedente. “Il giorno 11 giugno, però, la situazione precipitava: le possibilità di resistenza si erano andate ormai esaurendo, data l’assoluta mancanza di rifornimenti d’ogni sorta: soprattutto angoscioso il difetto di acqua per la popolazione civile. Fu giocoforza, quindi, cedere al nemico. “I valorosi difensori dell’isola avevano assolto il loro aspro dovere, fino al limite di ogni umana possibilità: basti rilevare, infatti, che per ammissione stessa da parte britannica, agli attacchi contro Pantelleria, aveva partecipato la quasi totalità delle forze aeree anglo-americane dislocate nel Mediterraneo, le quali in tredici giorni avevano rovesciato su quelle poche decine di metri quadrati da 15 a 17 mila tonnellate di esplosivo: nella sola giornata del 10, non meno di duemila tonnellate di bombe erano state sganciate sugli abitanti e sulle difese dell’isola. “Con altrettanto accanimento era stata intensificata, durante le giornate del 10 e dell’11, l’offensiva contro Lampedusa, così che, nella giornata del 12, anch’essa fu costretta a desistere dall’impari lotta. “Della presa di Pantelleria si parlò nella stampa britannica come di una prima breccia aperta nelle posizioni continentali dell’Asse, ed intanto si andarono intensificando i movimenti marittimi nelle acque mediterranee, nonostante l’attiva vigilanza e la vivace reazione da parte italiana: nella sola settimana dal 20 al 26 giugno, ad esempio, aerosiluranti italiani affondarono otto piroscafi, di cui sette per 74.000 tonnellate ed uno di medio tonnellaggio, non precisato; altri otto piroscafi ed una petroliera rimasero danneggiati. “A questi danni inferti all’avversario sono da aggiungersi quelli prodotti dalle incursioni di aerei sui porti dell’Africa Settentrionale e di Pantelleria stessa, nel corso delle quali risultarono colpite diverse unità da guerra e mercantili.

“Nello stesso periodo, infine, andarono perduti oltre un centinaio di aerei inglesi ed americani; numero che andò ancora salendo nei primi giorni di luglio, fino a raggiungere i 250 apparecchi circa nella settimana antecedente allo sbarco in Sicilia, con una percentuale di circa il 15 per cento degli apparecchi impiegati.” (4)
Questa è la versione, per così dire, ufficiale della battaglia per Pantelleria; la quale sottolinea, come è giusto, il coraggio e la tenacia dei soldati italiani e della popolazione civile, che sopportarono uno dei peggiori bombardamenti aerei (e navali) di tutta la seconda guerra mondiale.Tuttavia non possiamo fare a meno di domandarci se sia proprio vero che l’isola aveva resistito fino alle sue estreme possibilità. I danni riportati dalle possenti opere di fortificazione, eseguite prima della guerra, erano stati tali da giustificare la decisione di capitolare dopo pochi giorni soltanto? Le perdite della guarnigione erano state elevate, e le speranze di resistere più a lungo erano davvero inesistenti, allorché fu alzata la bandiera bianca, che apriva agli Anglo-Americani la via per lo sbarco in Sicilia e, successivamente, in Italia?
Se Pantelleria fu, per le forze alleate d’invasione, una specie di test, esistono seri dubbi che la difesa italiana lo abbia superato onorevolmente. Al contrario, vi è motivo di credere che proprio la resa di un’isola-fortezza pressoché intatta, la cui guarnigione aveva registrato la perdita di appena qualche decina di uomini, abbia rafforzato nei Comandi avversari il convincimento che l’Italia fosse vicina a un vero e proprio collasso morale, più di quanto la situazione potesse giustificare da un punto di vista strettamente militare.

Osserva ancora Picone Chiodo che non solo la resistenza fu molto inferiore a quello che sarebbe stato possibile – e non a causa della scarsa combattività delle truppe, ma della propensione alla resa dell’ammiraglio Pavesi -, ma che la caduta dell’isola segnò veramente la svolta definitiva per la condotta della guerra italiana.

A partire da quel momento, il destino della Patria era segnato. Il fatto che gli Americani, per l’invasione della Sicilia, avessero deciso di servirsi anche dei servigi della mafia, per il tramite del gangster Lucky Luciano, non aggiunge certo gloria alla vittoria degli Alleati, ma nemmeno deve essere sopravvalutato da un punto di vista militare. Piuttosto, tale coinvolgimento si sarebbe rivelato gravido di conseguenze sul piano politico e sociale, nei mesi e negli anni seguenti; ma questa è un’altra storia.

“L’isola di Pantelleria era stata trasformata nel 1938 dall’architetto Pier Luigi Nervi in una fortezza dotata perfino di aviorimesse sotterranee e, per questo motivo, era stata definita, con enfasi, la “Antimalta” italiana. A partire dal 18 maggio 1943 l’isola fu sottoposta a bombardamenti aerei sempre più violenti, cui si aggiunsero, alla fine di quel mese, i bombardamenti navali contro il porto effettuati da 17 navi britanniche (5 incrociatori leggeri, e cacciatorpediniere) e da 1 nave olandese (una cannoniera). Alla data del 6 giugno erano cadute dal cielo sull’isola (83 kmq.) ben 1.300 tonnellate di bombe, poi, solo il giorno 7 giugno, altre 600, l’8 giugno 700, il 9 giugno 800 ed il 10 giugno , terzo anniversario dell’entrata in guerra italiana, addirittura 1.500! In altre parole nei soli primi dieci giorni di giugno l’isola aveva ‘incassato’ 4.394 tonnellate di bombe e ciò aveva ridotto ai minimi termini il morale dei diecimila abitanti. Comandante dell’isola era l’ammiraglio Gino Pavesi, da cui dipendeva il generale Mattei, ai cui ordini era la guarnigione, forte di circa 11.000 uomini. La situazione della difesa non era molto buona: sulle 54 (o 44) batterie costiere solo 21 erano funzionanti e sui 150 aerei previsti ve ne erano al massimo una dozzina; inoltre vi erano munizioni solo per resistere dieci giorni e riserve d’acqua per ancora quattro giorni. Malgrado ciò l’isola aveva respinto, l’8 e il 10, due intimazioni alla resa e la guarnigione avrebbe, al momento dello sbarco britannico, combattuto, se improvvisamente, l’11 giugno 1943, pavesi non avesse ordinato di arrendersi. Pavesi, infatti, aveva indotto quel mattino Mussolini a dare il suo assenso alla resa. «Solo Stalin ed il Mikado possono ordinare di combattere fino all’ultimo uomo»,disse il Duce per giustificare il suo assenso e comunicò a Pavesi: «Chiamate malta e comunicate che, per penuria d’acqua, cessate ogni resistenza!». Si trattava di un abuso di fiducia (e Mussolini se ne rese poi conto) infatti i micidiali bombardamenti avevano distrutto soltanto due batterie e causato la morte di 35 militari e di 3 civili. Inoltre proprio lo stesso giorno della resa la 2. Flotta aerea tedesca aveva inviato uno JU-52 che, atterrando all’aeroporto di Margana, aveva portato sull’isola – con grande rischio – dei rifornimenti d’acqua e se ne era andato promettendo di tornare con dell’altra. Una resistenza, anche se limitata nel tempo, era dunque possibile. Invece l’ordine di resa giunse prima che i mezzi da sbarco (che trasportavano la 1. divisione di fanteria britannica del generale W. E. Clutterbuck) raggiungessero la costa presso il porto. Lo sbarco a Pantelleria (operazione Corkscrew o Cavatappi) si svolse perciò pacificamente. Vi fu però, a dire il vero, una ‘mini-resistenza’: da una postazione di fanti italiani partirono alcuni colpi che ferirono due soldati britannici. Da parte italiana vi fu un solo caduto: un artigliere, colpito dal calcio di un mulo! Il comportamento di Pavesi, che potremmo definire da sweet surrender, ebbe come conseguenza che l’arrendevole ammiraglio fu condannato a morte in contumacia a Parma il 22 maggio 1944.

“La notizia della caduta di Pantelleria mandò su tutte le furie Hitler, sia per il modo com’era avvenuta, sia perché la situazione nel Mediterraneo lo costrinse, lo stesso giorno, a rimandare una grande offensiva sul fronte russo: la cosiddetta operazione Zitadelle.

“La resa di Pantelleria segnò anche il destino delle Isole Pelagie, la cui guarnigione (4.000 uomini) aveva respinto con energia il 7 giugno un tentativo di sbarco a Lampedusa. Così gli Alleati occuparono il 12 Lampedusa, il 13 Linosa e il 14 lampione, senza colpo ferire.
“A giudicarlo oggi il Canale di Sicilia, nel giugno del 1943, rappresentava per gli italiani quello che sarebbe stato per i tedeschi il Reno nel marzo del 1945. Una specie di estremo bastione, il cui superamento avrebbe posto fine alla guerra. Questo modo di vedere e di sentire spiega il livello a cui era sceso il morale delle truppe italiane e della popolazione civile in Italia che, al momento dell’invasione, non seppe trovare la forza di reazione che invece la caratterizzò dopo Caporetto. , dando un nuovo vigore alle forze armate. Del resto ormai l’alternativa era o la colonizzazione dell’Italia da parte dei vincitori anglo-americani o un maggiore asservimento agli alleati tedeschi.
L’indipendenza della patria era stata persa nel corso del conflitto.” (5)

Anche Antonino Trizzino, nel suo ormai classico saggio-pamphlet Navi e poltrone, esprime gravissime riserve sul comportamento dell’ammiraglio Pavesi. Inoltre Trizzino aggiunge un elemento nuovo, che non era stato fino allora considerato: la circostanza che Pantelleria, nei piani originari anglo-americani, doveva bensì essere duramente bombardata e ridotta al silenzio, ma non occupata.

Non si riteneva opportuno, da parte alleata, mettere a repentaglio il materiale da sbarco per una operazione secondaria; materiale che sarebbe stato ben presto necessario per la molto più importante operazione anfibia contro la Sicilia. Una volta caduta la Sicilia, o almeno la parte sudorientale della grande isola, anche Pantelleria sarebbe caduta come un frutto maturo, senza rischi e senza perdite di uomini o materiali.

È chiaro, se le cose stanno così, che la resa di Pavesi, da questi sollecitata presso Mussolini esagerando la critica situazione dei difensori e carpendo – è il caso di dirlo – la buona fede del Duce, assume una coloritura politica che fa già presentire altri intrighi e altre manovre di palazzo, volte a scindere le responsabilità non solo dell’esercito, ma di una intera classe dirigente, da quelle dello stesso Mussolini e del regime fascista. “Soprattutto non si spiega la parte avuta dall’ammiraglio Riccardi e dal suo ministero o Supermarina in quello che può definirsi il mistero di Pantelleria. Quest’isola non doveva essere occupata dagli anglo-americani: non figurava nei loro piani, perché non volevano sacrificare mezzi a sbarco destinati alla conquista della Sicilia. Infatti, il generale Alexander ,nel suo rapporto al ministero della guerra inglese, scrive: «Il piano originale per la Sicilia contemplava che Pantelleria fosse semplicemente ridotta al silenzio da un pesante bombardamento, poiché qualsiasi perdita nell’equipaggiamento anfibio cui si fosse andati incontro nel tentativo di prendere l’isola, avrebbe ridotto le risorse disponibili per l’operazione principale (Sicilia).»

“Invece, all’improvviso, la mattina del 10 giugno 1943 nel vicino porto di Sfax si cominciarono a caricare soldati e mezzi per occupare Pantelleria. Da questo momento si sussegue una serie di avvenimenti, che lasciano seriamente perplessi. La sera del 10 stesso, alle ore diciannove, l’ammiraglio Pavesi, comandante di Pantelleria, radiotelegrafa a Roma per annunziare che non può continuare la resistenza e che è deciso a chiedere la resa, il radiotelegramma viene decifrato al ministero della marina con inspiegabile ritardo, cioè alle cinque dell’11. Pur concernendo esso una questione di eccezionale importanza, non si sveglia Mussolini per comunicarglielo, ma si aspettano le nove della mattina. L’autorizzazione alla resa parte così da Roma quando già tutti i mezzi anglo-americani sono davanti al porto di Pantelleria e sostano come in attesa. Arrivati a questo punto, non c’è più possibilità a Roma di pentirsi o di riesaminare la situazione: ma l’ammiraglio Pavesi non ha aspettato nemmeno il messaggio da Roma, tanta è la sua fretta, , e, come se dovesse ubbidire a una scadenza prefissata, alle nove e trenta ha fatto alzare bandiera bianca. Quando arriva il dispaccio, l’ufficiale addetto alla radio che lo riceve, non lo mostra nemmeno a Pavesi, ma, di sua iniziativa, ben sapendo trattarsi ormai di cosa fatta, trasmette un radiotelegramma a Malta ripetendo la decisione della resa. In questo modo Pantelleria non costava certo perdite agli anglo-americani e a queste condizioni valeva quindi la pena di modificare i piani e occuparla: tanto più che c’era nell’isola un ottimo aeroporto, perfettamente attrezzato, con molta benzina, che, trovato intatto, «fu di grande importanza per la campagna in Sicilia», come scrive il generale Alexander.

“Che cosa aveva indotto Pavesi a una resa così precipitosa? In quel momento, la resistenza di Pantelleria non poteva essere ritenuta affatto soffocata: il presidio dell’isola, composta da dodicimila uomini, non lamentava che una trentina di morti in un mese di bombardamenti. È vero che c’erano stati pesanti martellamenti aerei, che si incontravano gravi difficoltà nella distribuzione dell’acqua dei pozzi, che la popolazione era sottoposta a sofferenze e che viveva in grande disagio ammassata nei ricoveri, ma per quanto i paragoni siano, come si dice, odiosi, non può tacersi che anche la vicina Malta aveva subito un trattamento non indifferente, prolungato per vari mesi, da parte dell’aviazione italiana e tedesca. Il maggio del ’43 non fu certamente più duro per Pantelleria di quello che non fosse stato l’aprile del ’42 per Malta. I bombardamenti aerei italo-tedeschi, ripresi in massa alla fine del ’41 con il ritorno in Sicilia della Luftwaffe, avevano segnato un crescendo continuo durante i mesi successivi, fino a raggiungere in aprile un’intensità di cui non s’era mai vista l’uguale. Immense distruzioni, vittime a centinaia e comunicazioni rese quasi impossibili sugli sconvolgimenti del terreno. «Le strade erano così danneggiate», si legge nel libro The Epic of Malta, con prefazione di Winston Churchill, «e le comunicazioni così difficili, che si dovette ricorrere a volontari, che attraversavano il porto a nuoto sotto una grandine di colpi, per portare messaggi da una batteria all’altra». La deficienza di viveri si faceva duramente sentire sia per la popolazione civile che per la guarnigione; i feriti e gli ammalati , tra la gente mal nutrita che viveva ammassata nei ricoveri, aumentava continuamente; le munizioni si esaurivano a vista d’occhio, tanto che la dotazione dovette essere ridotta a soli quindici colpi per pezzo; l’acqua mancò a La valletta per quattro o cinque settimane.. Tuttavia il comandante di malta non mostrò alcun segno di essere disposto ad alzare le braccia al primo apparire davanti all’isola del corpo di spedizione italiano, appositamente concentrato in Sicilia per tentarne l’invasione. Né si ha alcun indizio che uno sbarco italiano a Malta (com’era in progetto dopo quei bombardamenti massicci e che poi sfumò) sarebbe avvenuto senza colpo ferire, come avvenne per quello anglo-americano a Pantelleria. Una piazza non può arrendersi senza aver combattuto ad oltranza ed esaurito all’estremo la resistenza: questa è la sua funzione, per questo è stata costruita. Quante cose, d’altra parte, che sembrano impossibili, sono state fatte da uomini decisi a non cedere.

“Nello stesso telegramma spedito a Roma l’11 giugno si comunicava a Pavesi che gli era stato conferito l’Ordine militare di Savoia. Il provvedimento fu annullato, non appena ne fu chiara l’inopportunità: tuttavia c’è da chiedersi quale ricompensa sarebbe stata proposta per il comandante di Pantelleria se si fosse comportato come il generale giapponese Yoshigo Saito, a Saipan, nel luglio del ’44. In ventiquattro giorni di duri combattimenti erano già caduti ventiquattromila soldati giapponesi: molti erano, fra i rimasti, i feriti e gli ammalati; anche le armi scarseggiavano. «Io attaccherò con quelli che rimangono», disse nel suo ultimo messaggio il generale Saito, ormai alla fine dei mezzi di resistenza e sotto un violento bombardamento aeronavale, «per vibrare un altro colpo al nemico e lasciare le mie ossa su Saipan, come baluardo sul Pacifico. Non mi rassegnerò ad esser preso vivo: per l’imperatore e per la vita immortale del paese, io avanzo per cercare il nemico. Seguitemi». (6)

Come si vede, l’enfasi con cui la storiografia “ufficiale” ha cercato di trasformare un episodio oscuro di mancata resistenza, e forse di collusione col nemico, in una pagina eroica di gloria militare, è del tutto fuori luogo e tradisce, piuttosto, il desiderio di rimuovere in fretta le pagine ambigue della condotta italiana della guerra. Una volta stabilito, dopo il 1945, che l’Italia aveva fatto la guerra dalla parte sbagliata e che dalla sconfitta era uscito un ordine politico e sociale più giusto e più avanzato, non sembrava più il caso di guardar tanto per il sottile se, per raggiungere l’obiettivo della libertà e della democrazia, si erano pugnalati alle spalle l’esercito, la marina e il Paese tutto. Si videro, infatti, pezzi grossi delle forze armate pavoneggiarsi con alte decorazioni britanniche, ossia dell’ex nemico, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo; quando era più che evidente che quelle decorazioni non erano state certo concesse quale segno di ammirazione per l’eroismo mostrato in guerra nella lotta contro l’avversario.

Vale infine la pena, prima di concludere, mettersi per una volta dalla parte del grande sconfitto, quel Benito Mussolini che conservava, almeno teoricamente, la carica di comandante delle forze armate e che, oltre al danno, dovette subire anche la beffa di vedersi convinto da Pavesi che la resistenza di Pantelleria era stata talmente eroica, da meritare il riconoscimento di una decorazione al valore per l’ammiraglio destinato alla prigionia: un po’ come aveva fatto Hitler con il generale von Paulus a Stalingrado, qualche mese prima, al principio di quel tragico 1943.

Fra giugno e luglio del 1944 il Duce, che pur nel pieno declino politico aveva conservato la sua grinta di giornalista dei tempi migliori, scrisse per il Corriere della Sera una serie di articoli che poi, nell’agosto dello stesso 1944, furono raccolti in volume sotto forma di supplemento al n. 190 del giornale milanese, con il titolo di Il tempo del bastone e della carota. Storia di un anno (ottobre 1942-settembre 1943).

Ci sembra di notevole interesse, dal punto di vista storico, riportare le sue riflessioni sulla vicenda di Pantelleria, scritte, se non proprio “a caldo”, a una distanza dai fatti non eccessiva (un po’ meno di un anno; ma che anno!), e mentre la seconda guerra mondiale ancora infuriava su tutti i fronti, benché non fosse più dubbio, se non per pochissimi illusi, quale ne sarebbe stato l’esito ormai inevitabile.

È particolarmente interessante notare che qui Mussolini (che parla di sé stesso usando la terza persona, un po’ come Cesare nel De Bello Gallico) rivendica il merito di avere intuito, alcuni anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, il valore strategico dell’isola di Pantelleria; di averne voluto la fortificazione contro il parere dei “tecnici”; di averne ispezionato i lavori che, per taluni aspetti – come la costruzione dei ricoveri sotterranei per gli aerei -, avevano carattere di assoluta novità nel mondo intero

“Pantelleria era nota agli Italiani come un’isola di deportazione o confino. Vita sulla carta geografia appariva come un punto quasi insignificante. Ciò fino al giorno in cui, volandovi sopra, Mussolini trovò Pantelleria essere un’isola abbastanza grande per diventare l’anti-Malta, capace di bloccare il Canale di Sicilia nel suo tratto più breve.

“Non avevano quindi torto gli Inglesi quando, dopo la conquista, la chiamavano l’isola di Mussolini.

“Ma la decisione di tramutare Pantelleria in una base aeronavale incontrò mole opposizioni, e le prime obiezioni furono naturalmente quelle dei tecnici professionali. Gli dissero che non era necessario fortificare Pantelleria per bloccare il Canale. Al che fu risposto: si blocca meglio una strada piantandosi nel mezzo della medesima ostando ad un margine? Se anche si guadagnano da Pantelleria pochi minuti, non può essere questo vantaggio, nel tempo, un fattore determinante del successo? Le obiezioni dei tecnici caddero: fra di essi era il generale Valle, e si cominciò a lavorare accanitamente. Furono mandate alcune migliaia di operai: bisognava in un paio d’anni migliorare il bacino portuale per renderlo idoneo a navi e natanti di medio tonnellaggi, costruire un campo di aviazione, un’avio-rimessa sotterranea a due piani, postare le batterie anti-aeree e anti-nave, concentrare ampie riserve di viveri e munizioni, migliorare la rete stradale, minare i brevi tatti di spiaggia dove esisteva una possibilità di sbarco. Questo programma fu attaccato con ammirevole energia. La guarnigione fu progressivamente rinforzata: un anno dopo, il 18 agosto del 1938, Mussolini si recò in volo a Pantelleria, atterrò nel campo quantunque non ancora del tutto ultimato, visitò le gigantesche rimesse sotterranee – primo esempio nel mondo – e poté constatare che almeno il 50% del programma poteva considerarsi realizzato.

“Gli Inglesi seguivano con crescente e dispettoso interesse la creazione di questa base aeronavale italiana nel mezzo del Mediterraneo. Scoppiata la guerra l’opera non si arrestò. Continuarono gli invii di armi e di aerei, di uomini e di viveri: quando verso la metà di maggio il generale nemico Spaaz iniziò l’attacco aeronavale contro Pantelleria, nell’isola v’erano quaranta batterie, alcune squadriglie di aeroplani da caccia e una guarnigione di circa dodicimila uomini. Comandante della base l’ammiraglio Pavesi; delle truppe di terra il generale Mattei.

“Verso i primi di giugno l’attacco aereo diventò massiccio, quotidiano, diurno e notturno; spesso accompagnato da bombardamenti navali. I bollettini del Quartier generale elle Forze armate numero 1.102, 1.103, 1.104, 1.105, 1.106, 1.107, 1.108, 1.019 segnalavano le incursioni nemiche. Il bollettino 1.109 annunciava che «il presidio di Pantelleria, reagendo con immutato valore all’ininterrotta azione aerea nemica, ha ieri distrutto 6 velivoli». Il bollettino numero 1.110, che si riferiva all’attività del giorno 8 giugno, richiamò in modo particolare l’attenzione degli Italiani e ne scosse il sentimento. Vi era detto che «il presidio dell’isola di Pantelleria, che durante la giornata di ieri – 8 giugno – ha subito un ininterrotto bombardamento aereo, non ha risposto alla intimazione di resa fatta dal nemico».

“E aggiungeva che durante gli attacchi aerei erano stati abbattuti quindici velivoli nemici. Questo bollettino suscitò un moto di fierezza nell’animo di tutti. Il successivo 1.111 annunciava nuove incursioni aeree nemiche su Pantelleria e l’abbattimento di altri undici velivoli avversari. Il bollettino 1.112 annunciava che «poderose formazioni avversarie di bombardieri e di caccia si sono susseguite ininterrottamente ieri – 10 giugno – e questa notte su Pantelleria, il cui presidio, quantunque martellato dall’azione di un migliaio di apparecchi nemici, ha fieramente lasciato senza risposta una nuova intimazione di resa».

“Nella stessa giornata la caccia italo-tedesca aveva abbattuto ventidue velivoli nemici. Questa seconda ripulsa alla intimazione di resa che il generale Spaaz aveva fatto per radio accese di entusiasmo molti cuori di Italiani. Finalmente! La stampa neutrale e anche nemica sottolineò il fatto. L’opinione media degli stranieri era la seguente: i soldati italiani non si erano battuti brillantemente sin qui perché lontani dalla patria, ma ora che si trattava del ‘sacro suolo dell’Italia i soldati italiani – diceva un giornale svedese – avrebbero «sorpreso il mondo».

“Ciò che accadeva a Pantelleria pareva dare ragione all’osservatore straniero. L’elogio partito da Roma e diretto al comandante della base di Pantelleria si incrociò con un altro telegramma del comandante stesso, nel quale egli sosteneva l’impossibilità di una ulteriore resistenza, soprattutto per la mancanza di acqua. Questo inatteso voltafaccia – nel giro di poche ore – suscitò una assai sgradita sorpresa nel Comando Supremo. Fu convocata una riunione con l’ammiraglio Riccardi e i generali Ambrosio e Fougier. La resa cadeva proprio nell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia. Il telegramma dell’ammiraglio Pavesi era diretto a Mussolini. Intimare di resistere sino all’ultimo appariva un gesto inutile e già inutilmente sperimentato in precedenti occasioni, come a Klisura in Albania e altrove. Il testo del telegramma Pavesi dipingeva la situazione come assolutamente insostenibile: resistere ancora non voleva dire altro che un inutile bagno di sangue.

Ma allora, che valore aveva avuto la ripulsa alle intimazioni di resa di 24 e 48 ore prima? Che cosa credeva, l’ammiraglio Pavesi, che davanti alla sua ripulsa il generale Spaaz – ammirato e commosso – avrebbe sospeso le incursioni?

“Si era allora trattato soltanto di un bel gesto, destinato a rimanere nient’altro che un ‘bel gesto’? Un ‘gesto’ più teatrale che militare? Alla fine, con grande amarezza, fu spedito il telegramma che Pavesi ansiosamente attendeva: «Radiotelegrafate a Malta che per mancanza d’acqua cessate ogni resistenza». Una grande bandiera bianca fu dispiegata sul porto e su alcuni edifici dell’isola: il fuoco cessò. Gli Inglesi sbarcarono tranquillamente. Alcuni soldati che non si rendevano conto di quanto avveniva spararono alcune fucilate che ferirono due soldati nemici. Nient’altro! “Lo sbarco a Pantelleria – che, secondo un foglio inglese, con qualsiasi altra guarnigione avrebbe stato impossibile – costò all’Inghilterra il sangue di due feriti leggeri. E quanto costò all’Italia la difesa della prima isola del territorio metropolitano? “Il capo di stato maggiore generale, direttamente interpellato e procedendo attraverso scarse indirette documentazioni – l’ammiraglio Pavesi era sempre stato assai reticente in materia – consegnò un rapporto al Capo del Governo che stabiliva queste cifre: in un mese 56 morti e 116 feriti, quasi tutti Camicie nere della contraerea. Popolazione e truppe asserragliate nelle aviorimesse sotterranee non avevano avuto che perdite insignificanti. L’intera guarnigione – quasi intatta – composta di ben 12 mila uomini fu catturata. Dopo alcune settimane l’ammiraglio di squadra Jachino presentò una elaboratissima relazione che riduceva a 35 caduti il totale delle perdite subite durante un mese di bombardamenti della guarnigione di Pantelleria. Le aviorimesse, scavate nella roccia, avevano annullato gli effetti delle bombe nemiche. Le duemila tonnellate di bombe erano – sì – state gettate sull’isola, ma sulla roccia, non sugli uomini.

“Più tardi si venne a sapere – dalle testimonianze del nemico – che anche l’acqua non mancava: comunque erano in arrivo dei distillatori di acqua marina di media portata, di marca francese. “Come un getto di acqua gelata, cadde sull’animo degli Italiani il bollettino 1.113 che annunciava la caduta dell’isola. Seguiva un commento di circostanza, che dopo Pantelleria, passando per Lampedusa, esaltava il «piccolo eroico presidio che resisteva con eroica fermezza» mentre aveva già alzato bandiera bianca.

“L’ammiraglio Pavesi aveva mentito; oggi si può dire: aveva tradito.

“Non furono nemmeno demoliti gli hangars sotterranei e fu lasciato quasi intatto il campo di aviazione.

“Peccato che il plotone di esecuzione non abbia raggiunto il primo in odine di tempo degli ammiragli traditori, che dovevano dopo pochi mesi perfezionare il tradimento nella più vituperevole forma: consegnando l’intera flotta al nemico.

Con la caduta di Pantelleria, il sipario si alzava sul dramma della Sicilia…” (7)

Parole piene di amarezza da parte di un uomo politico che aveva puntato il destino della Patria su una avventura militare che, in quei mesi, si stava risolvendo nel modo più tragico. E tuttavia, le responsabilità generali di Mussolini non annullano le responsabilità di quanti, nella guerra ancora in corso, sabotarono i sacrifici delle truppe e consegnarono le chiavi dell’Italia in mano al nemico. Dopo il 1945, una storiografia non certo imparziale ha preteso di tirare un colpo di spugna su comportamenti come quello dell’ammiraglio Pavesi, che non furono isolati e che non si verificarono solo nell’estate del 1943, alla vigilia del crollo, ma fin dall’inizio delle operazioni militari, nella primavera del 1940. E ciò in base al giudizio politico che quella guerra aveva offerto l’occasione, da alcuni auspicata (ma non da tanti come poi si volle far credere), per abbattere il regime fascista, anche se ciò avrebbe comportato la sconfitta militare e la fine di quella che lo storico Emilio Gentile ha definito l’idea della Grande Italia. (8)

Pare che molti capi militari, pur non arrivando all’idea esplicita del tradimento, abbiano condiviso, fin dal 1940, uno stato d’animo di apatia e rassegnazione che, unito a una larga incompetenza professionale, favorì l’inspiegabile condotta della guerra da parte italiana. Ciò è vero specialmente per i primi mesi, quando la Gran Bretagna si trovava in gravissime difficoltà (infuriava sopra i suoi cieli la battaglia d’Inghilterra) e un colpo fulmineo su Malta, accompagnato da una rapida avanzata sul Canale di Suez, avrebbe probabilmente impresso una svolta risolutiva alla guerra, assicurando all’Italia il dominio del Mediterraneo e, forse, del Vicino Oriente, con i suoi preziosi giacimenti petroliferi, dei quali tanto la nostra industria aveva bisogno.

Insomma, sembra più che mai giustificato il severo giudizio di Franco Bandini secondo il quale, una volta che l’Italia era in guerra, tanto valeva cercare di combatterla seriamente e sforzarsi di vincerla. Ma una simile linea di condotta avrebbe potuto scaturire solo da una diversa psicologia, quella che gli Inglesi hanno sintetizzato nella frase: Right or wrong, it’s my Country: «(che questa guerra) sia giusta o sbagliata, si tratta della mia Patria». I Comandi italiani, nel 1940-1943, non avevano raggiunto un tale livello di consapevolezza; al contrario, parte di essi sembrava augurarsi la sconfitta del proprio Paese, onde sbarazzarsi di un regime politico sgradito. E la stessa cosa può dirsi per le classi dirigenti in generale nonché, almeno in una certa misura, per il popolo italiano in quanto tale.

L’antica mentalità di fazione, che risale al Medioevo e che si è esplicata sin dalle lotte fra Guelfi e Ghibellino, tornava a fare capolino nell’Italia della seconda guerra mondiale. Meglio l’invasione del nemico esterno, piuttosto che la vittoria del vicino interno. La cannonata che ferì a morte Giovanni dalle Bande Nere, l’unico condottiero che avrebbe potuto fermare i Lanzichenecchi e risparmiare a Roma lo scempio del 1527, era stata sparata dalle artiglierie che il duca di Ferrara aveva prestato agli Imperiali di Carlo V. Certo, questo discorso oggi non piace, perché presuppone una capacità di autocritica che non è certo stata incoraggiata dal modo frettoloso con cui si è archiviato – anche semplicemente sul piano storiografico – il capitolo della condotta italiana nella seconda guerra mondiale, giudicato un argomento troppo imbarazzante.

Ma qui appunto risiedono le responsabilità politiche, prima ancora che militari, del fascismo. Esso gettò il Paese in una guerra cui non era moralmente preparato; e non era preparato in primo luogo perché l’idea di nazione non si era sufficientemente sviluppata né fra le classi dirigenti, né fra quelle popolari. Il fascismo aveva cercato, per vent’anni, di subordinare l’idea di nazione all’idea di rivoluzione e di Nuovo Ordine Mondiale; ma, così facendo, aveva ulteriormente indebolito la coscienza nazionale, già poco sviluppata, degli Italiani.

Così, prima ancora che sul piano strettamente militare, l’esito dell’avventura iniziata il 10 giugno del 1940 era già scontato, fin dall’inizio. Nessun popolo al mondo potrebbe sopportare la prova di un conflitto durissimo, lungo e di esito incerto, qualora non sia sostenuto da un robusto spirito nazionale. La verità di questo semplice assunto è stata dimostrata, nel modo più impietoso, dai tragici fatti dell’8 settembre 1943.

NOTE

1) Emilio Canevari, Italia 1861-1943, Da Cavour a Mussolini. I retroscena della disfatta, Roma, Edizioni Erre, 1965 (3 voll), III, p. 1.108.

2) Cfr. Mario Picone Chiodo, In nome della resa. L’Italia nella seconda guerra mondiale (1940-1945), Milano, Mursia, 1990, p. 263.

3) Ibidem, pp. 261-262.

4) Amedeo Tosti, Storia della seconda guerra mondiale, Milano, Rizzoli, 1950 (2 voll.), II, pp. 184-186.

5) Mario Picone Chiodo, Op. cit., pp. 267-268.

6) Antonino Trizzino, Navi e poltrone,, Milano, Longanesi & C., 1966, pp. 179-183.

7) Benito Mussolini, Il tempo del bastone e della carota. Storia di un anno (Ottobre 1942- Settembre 1943), Milano, Edizioni FPE, 1966, pp. 17-21.

8) Cfr. Emilio Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1997.

One Comment

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