Storia

Malta e Pantelleria: affinità e diversità storico-linguistiche

Malta e Pantelleria: affinità e diversità storico-linguistiche
di Joseph M. BRINCAT

 

malta

 

Malta e Pantelleria, le isole più grandi del canale di Sicilia, hanno condiviso la maggior parte delle vicende socio-politiche nell’antichità e nel medioevo. Queste sono state naturalmente determinate dalla loro situazione geografica tra la Sicilia e la costa nordafricana, e pertanto le isole sorelle hanno vissuto drammaticamente le avanzate e le ritirate dei vari dominatori del Mediterraneo centrale. Più precisamente si sono trovate al centro dei movimenti altalenanti tra le due sponde settentrionale e meridionale.

    I primi contatti furono stabiliti nel periodo neolitico, forse fin dal V millennio a.C. e certamente dal III, l’eneolitico, contatti testimoniati dalla presenza di ossidiana pantesca a Malta, anche se, nel caso di Pantelleria, Sebastiano Tusa (s.d.) cautamente distingue tra frequenza e occupazione. Ovviamente non si sa nulla della lingua parlata dai primi abitanti delle due isole tranne il fatto che, a causa della loro provenienza dalla Sicilia, sia “i costruttori dei templi” maltesi sia i costruttori dei sesi probabilmente parlavano varietà più o meno simili della stessa lingua “mediterranea” di cui non sono pervenute testimonianze scritte. I Fenici sfruttarono le due isole per il loro ruolo strategico al centro delle rotte mediterranee e si presume che vi portassero un certo benessere. Anche la pax romana permise loro di fare una vita tranquilla, ma i Vandali, i Bizantini e gli Arabi provocarono crisi sociali e demografiche che cancellarono le tracce linguistiche precedenti. Effettivamente non sono nemmeno pervenute notizie linguistiche esplicite relative a questi periodi, anche se è lecito presumere che i tempi piuttosto lunghi dei vari domini avrebbero potuto determinare l’avvicendarsi del punico, del latino e del greco bizantino non solo sul livello della lingua alta, dell’amministrazione, ma anche sul livello del basiletto, cioè la lingua parlata dagli abitanti.

    Eppure di queste lingue non mancano solo le testimonianze scritte dell’epoca, ne mancano anche le tracce interne sia nel maltese sia nel pantesco parlati oggi. Per conseguenza lo strato più antico attestato in entrambe è quello della varietà magrebina che si formò in Sicilia durante il dominio musulmano. Tale assenza di strati anteriori all’introduzione dell’arabo è molto significativa perché addita il modo rapido e violento della conquista. Quando una popolazione viene soggiogata in modo pacifico, la coesistenza delle due comunità dei conquistati e dei conquistatori conduce a un periodo di bilinguismo che permette la compenetrazione del vecchio sistema in quello nuovo. A Malta come a Pantelleria l’assenza di un sostrato punico, latino o bizantino concorda con le notizie storiche delle fonti arabe che parlano di massacri e di periodi di abbandono. Dopo la razzia del 700 Pantelleria fu abbandonata e fino all’840 divenne il rifugio dei cristiani che fuggirono da Cartagine (la testimonianza è di al-Tigani, citata da Amari, 1880-81, II:41). Bresc ricorda che nell’803 Carlo Magno riscattò alcuni dei 60 monaci dell’isola che furono messi in vendita dai Mori in Spagna e deduce che in quel periodo Pantelleria era un avamposto della civiltà bizantina e conservava quei valori culturali che venivano sostituiti in Ifriqiya (1999:19). Sembra logico dunque presumere che in quel periodo la lingua degli abitanti di Pantelleria fosse il greco (se non il latini ifriqi, o una diglossia) finché gli Aghlabiti non la riconquistassero definitivamente, massacrando gli abitanti cristiani (Bresc 1999:19). Ibn Khaldun ha raccontato la conquista di Pantelleria, senza specificare la data, ma attribuendola a Ziyadat Allah, e ha ricordato una vittoria navale sui Bizantini nei pressi dell’isola nell’834-5. Bresc non ha rintracciato notizie su come e quando è stata ripopolata dai Musulmani ma sembra disposto a considerare un periodo di abbandono sulla base di un poema di Ibn Hamdis e un aneddoto in al-Dimashqi. Una comunicazione personale di Leonardo Chiarelli rivela la presenza della setta Ibadiyah in Pantelleria nel secolo XIII (un’altra comunità degli Ibadi si trasferì da Manu in Libia a Qasr Yani, cioè Enna). Per quanto riguarda Malta, al-Himyari racconta che l’isola subì una feroce razzia nell’870, durante la quale fu preso il governatore bizantino Ambros, la città fu distrutta e l’isola venne abbandonata dagli Arabi che ci tornarono saltuariamente per il legname, la pesca e il miele. Molto più tardi, nel 1048-49, vi fu piantata una nuova colonia di “musulmani” e di “schiavi”.

    I due casi paralleli indicano che doveva essere questa la strategia applicata dagli Arabi nella conquista delle isole, cioè l’interruzione sociale (e forse anche etnica) e la ripopolazione. Come ho accennato sopra, dal punto di vista linguistico tale politica spiega perfettamente la mancanza di un sostrato pre-arabo in entrambe le isole (si confronti la situazione in Sicilia, isola ben più vasta, dove Pellegrini ha individuato alcune voci romanze nei documenti arabi di Sicilia, attribuendole al volgare anteriore alla riconquista normanna (Pellegrini 1975:459 cit. in Varvaro 1981: 121). La conferma più evidente viene dalla toponomastica di base che in entrambe le isole è tutta di origine araba, essendo praticamente assenti i nomi di luogo pre-arabi. Del resto toponimi come i seguenti, anche se non sempre corrispondono a toponimi maltesi, risultano agevolmente comprensibili ai Maltesi per la loro somiglianza con termini odierni: Balata dei Turchi (blata ‘roccia’), Dakhalé (dahla), Fram (fran ‘forni’), Gadir (ghadira ‘lago, pozzanghera’), Monte Gelkamar (gebel ahmar ‘pietre rosse’), Gibele (gebel ‘monte’ o ‘pietre’), Gibiuna (gibjun ‘pozzo’), Kàmma (Hamm ‘calore’), Khàgiar (hagar), Khafféfi (haffiefa ‘pomice’), Khanìa (hnejja ‘arco’), Khareb (herba), Kharucia (art harxa), Khufirà (hofra), Kuddia (Gudja, top.), Maggiuluvedi (marg il-wied), Masira, Rekàle (rahal), Salibi (salib it-toroq ‘crocevia’), Sciuéki (xwieki ‘rovi’), Sillumi (sellum ‘scala’), Tikhirrìki (triq ir-rih ‘la via del vento’), Triqnakhalé (triq in-nahal ‘la via delle api’), Ziton (Zejtun, top.), Zubebi (zbib). Perfino il nome bizantino Pantelleria è derivato dall’arabo Bent al- ariyah che in maltese sarebbe “Bint l-irjieh”.

    Per questo motivo il punto di partenza della storia delle lingue parlate presentemente a Malta e a Pantelleria è l’introduzione dell’arabo. Però sorgono immediatamente due importanti quesiti: quale arabo? e perché a Pantelleria è stato abbandonato mentre Malta lo ha conservato, seppur con sostanziali modifiche?

    Qui gioca un ruolo importante la situazione geografica delle isole. Poiché Pantelleria è situata nella parte più stretta del canale di Sicilia, a 67 km dalla costa tunisina e a 95 km dalla costa siciliana, è logico aspettarsi uno sbarco direttamente dalla Tunisia. Non si sa se i Musulmani avessero fatto proprio così o se l’avessero ignorata quando nell’827 sbarcarono a Mazara e puntarono su Palermo che cadde nell’831, concentrandosi su tutta la Sicilia fino alla caduta di Siracusa nell’878. Ma poco importa, perché il problema linguistico è più legato all’orientamento amministrativo. Se Pantelleria dipendesse dall’Africa la lingua sarebbe stata certamente una varietà del maghrebino, se invece fosse amministrata da Palermo allora vi si sarebbe affermata la varietà, sempre di base maghrebina, ma del tipo che si stava amalgamando in Sicilia. L’arabo di Sicilia era una varietà parlata con caratteristiche proprie che la distinguevano non solo dall’arabo ufficiale, coranico, ma anche dalla varietà parlata nel Maghreb, prima di tutto per causa della composizione eterogenea dei conquistatori musulmani, che erano non solo arabi ma anche berberi, profughi dalla Spagna e Persiani, cioè in gran parte arabofoni ma appartenenti a comunità che parlavano o avevano parlato altre lingue e dunque, per dire così, apprendenti imperfetti. Poi ci fu l’influsso, che doveva essere ancora più forte, dei siciliani che dopo un periodo di bilinguismo abbandonarono il latino volgare materno per adottare l’arabo. Se risulta difficile accettare la tesi di Rohlfs sulla sostituzione totale del latino con l’arabo e col greco in Sicilia, non possono sussistere dubbi sul maggiore prestigio dell’arabo specie nelle zone occidentale e meridionale, tanto che la sopravvivenza del mozarabico (il dialetto neolatino che fu conservato dai siciliani che adottarono la fede e gli usi dei musulmani) è stata collegata con “un orizzonte culturale appartato e rustico” (Varvaro 1981:123).

    Fornire un profilo dell’arabo di Sicilia è certamente un’impresa non facile, ma le indagini degli ultimi decenni dimostrano che vale approfondire le ricerche in questa direzione scientifica. Accanto ai lavori fondamentali di Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con particolare riguardo all’Italia (1972), e Ricerche sugli arabismi italiani con particolare riguardo alla Sicilia (1989), oggi si dispone di studi su vari aspetti del problema quali De Simone, Spoglio antroponimico delle giaride arabo-greche dei Diplomi editi da S. Cusa (1979), Varvaro, Lingua e storia in Sicilia (1981), Caracausi Arabismi medievali di Sicilia (1983), Tropea, Lessico del dialetto di Pantelleria (1988) mentre, in attesa del lessico dell’arabo di Sicilia che è in preparazione per le cure di Adalgisa De Simone, un importante passo avanti è stato compiuto da Dionisius Agius con Siculo Arabic (1996). Una figura chiave in questi studi è quella di Ibn Makki al-Sikilli, un musulmano che nacque in Sicilia ma emigrò in Africa quando non si poté adattare al governo dei Normanni (morì nel 1107). Nel suo Tathqif al-lisan denunciò le deviazioni dell’arabo che veniva parlato in Sicilia e, facendo questo, ci ha lasciato testimonianze precise delle caratteristiche peculiari dell’arabo di Sicilia. Insomma la sua importanza è paragonabile a quella dell’autore dell’Appendix Probi, il docente romano del III-IV secolo che denunciò gli errori dei suoi allievi (vetulus non veclus, ecc.) e in questo modo attestò per noi i processi che dal latino volgare avrebbero portato all’italiano.

    Il lavoro di Ibn Makki è suddiviso in 50 sezioni dedicate alla fonologia, morfologia, sintassi e lessico e distingue tra tashif, corruzione, e tabdil, cambiamento. Denuncia e descrive gli errori tipici di due classi sociali, la ’amma e la c assa, ma questa distinzione sembra piuttosto diamesica che diastratica, cioè distingue tra quelli che sapevano leggere e scrivere e gli analfabeti, i quali a quei tempi includevano il ceto medio-basso che comprendeva venditori, artigiani, contadini e pescatori. Ibn Makki si soffermò soprattutto sugli analfabeti. Inevitabilmente gli arabofoni dovettero subire l’influsso dei latinofoni e dei grecofoni con i quali erano in contatto quotidiano, ma Ibn Makki non era interessato all’uso di voci romanze perché voleva correggere solamente gli errori dell’arabo. Un altro fattore importante da tenere presente è che i colti, benché scrivessero in modo più o meno corretto, quando parlavano usavano una lingua che non era molto diversa da quella degli analfabeti, e allora molti errori venivano commessi sia dagli uni sia dagli altri. Ibn Makki era anche conscio del fatto che i dotti facevano errori peculiari, gli ipercorrettismi.

    Sulla base delle osservazioni di Ibn Makki, Agius distingue tre varietà dell’arabo di Sicilia: il Siculo-Lahn (pp. 123-242), il Siculo-Arabic (pp. 243-397) e il Siculo-Middle Arabic (pp. 399-425) che corrispondono alle tre comunità che si formarono sotto condizioni e in tempi diversi. La prima categoria, il Siculo-Lahn, comprende le devianze dei due registri, alto e basso, così come furono descritte da Ibn Makki verso l’anno 1090. La seconda categoria, il Siculo-Arabic, è basata su termini tecnici che riguardano la cultura materiale, così come furono registrati nei documenti notarili insieme con termini onomastici e toponimici, ed è stato oggetto di studio da parte di Pellegrini (1972, 1989) e Caracausi (1983). Tali termini permettono un esercizio comparativo con l’Andalusi, che possiede documenti ben più abbondanti (Corriente 1992) e con il maltese che ha una tradizione più lunga perché arriva ai nostri giorni. L’arabo siculo doveva essere la varietà che adoperavano i siciliani arabofoni tra di loro, ed era dunque una specie di dialetto locale, soprattutto con la seconda generazione di coloro che avevano abbandonato l’uso del latino o del greco e che era passata dalla fase pidgin alla fase creole. Poteva essere anche la lingua dei Siciliani che, pur senza abbandonare la fede cristiana, adottarono lo stile di vita musulmano. Evidentemente il grado di mescolanza tra arabo parlato e latino o greco poteva variare secondo la località, l’epoca, e anche l’individuo. È probabile che la maggior parte degli arabismi del dialetto siciliano siano i residui di questa varietà. È da notare che molti cambiamenti fonologici concordano con il maltese e l’andalusi, infatti Agius ne elenca dodici corrispondenze consonantiche e dieci vocaliche. Tra le corrispondenze morfologiche spicca l’aggiunta di suffissi romanzi a termini di origine araba.

    La terza categoria, l’arabo siculo medio, palesa il processo di commistione con l’arabo classico e con il dialetto romanzo ed è testimoniata nelle giara’id che erano documenti pubblici del periodo normanno, ed erano spesso privilegi concessi dai Re ai nobili e ai religiosi. Furono pubblicate da Salvatore Cusa e studiate da Adalgisa De Simone (1979, 1984, 1986, 1988, 1994) e da Girolamo Caracausi (1983, 1985, 1987-88). Scritte nella maggioranza in greco e talvolta in arabo, o in arabo e in greco o in arabo e in latino, non solo attestano il regno triculturale del periodo normanno ma, grazie alla trascrizione fonetica delle parole arabe nell’alfabeto greco, rendono chiaramente le vocali che la grafia araba non precisa. La qualità dell’arabo scritto, malgrado le intenzioni di avvicinarsi al classico, palesano devianze peculiari perché chi scriveva era di cultura cristiana e pertanto la lingua è caratterizzata da elementi semantici particolari. La loro utilità è di fornire informazioni preziose sulla situazione linguistica in Sicilia tra il 1091 e il 1266.

    Il maltese di oggi certamente, e il pantesco in misura minore ma non meno preziosa, potrebbero gettare luce su quella situazione linguistica. Ed è per questo motivo che un esame comparativo approfondito tra siciliano, pantesco e maltese sarà di grande utilità. Concessa la maggiore importanza politica della Sicilia, e proprio in vista della più intensa dinamicità delle trasformazioni sociali, religiose e demografiche che vi erano in atto nel periodo normanno-svevo, Malta e Pantelleria rappresenterebbero due ambienti isolati dal centro, e dunque conservatori, ma più importanti delle altre isole del mare di Sicilia proprio perché, secondo al-Idrisi, erano “abitate tutto l’anno” (Amari 1933-39: 797), dunque godevano una relativa stabilità demografica.

    A questo punto possiamo esaminare il secondo quesito: perché, e quando, l’arabo fu abbandonato a Pantelleria e perché a Malta si è conservato. Le modalità del passaggio da una società di lingua araba e di religione, almeno in parte, musulmana a una società cristiana e di lingua romanza furono diverse in Sicilia, a Pantelleria e a Malta. Per la complessa situazione in Sicilia rimando a Varvaro (1981, sez. 7.6) e mi soffermo soltanto sulle due isole satelliti. Nel XIII secolo Pantelleria era musulmana e di lingua araba mentre nel XVI era cristiana e ancora di lingua e di costumi arabi (Amari 1933-39, 3/3: 895). Invece Malta poteva già avere una maggioranza cristiana nel 1053-54 se la contrapposizione semantica di al-Himyari e di al-Qazwini tra “musulmani” e “schiavi” oppone i due membri della comunità dal punto di vista religioso oltre a quello sociale (se i musulmani non erano schiavi, gli schiavi non erano musulmani; Brincat 1995: 22). I documenti menzionano la presenza di cristiani a Malta nel 1091 (Malaterra parla di prigionieri liberati da Ruggero I ma tace di cristiani che non erano prigionieri: non ce n’erano, o non lo interessavano?), attestano una comunità cristiana sotto Ruggero II tra il 1130 e il 1154 e anche vescovi di Malta residenti in Sicilia nel 1156 e nel 1168. Però si parla anche di abitanti “saraceni” nel 1175 (il vescovo Burchard di Strasburgo) e nel 1241 (il censimento di Giliberto Abbate registra 1250 famiglie cristiane e 836 famiglie musulmane). Però questo fatto deve essere considerato nel quadro più ampio che comprende la Sicilia, poiché Ibn Gubayr nel 1185 osservò che l’Islam fioriva ancora in Sicilia, che la religione era rispettata e dominava assolutamente nella regione tra Palermo e Trapani (Varvaro: 164), e aggiunse che a Palermo “le donne cristiane sembrano musulmane, parlano bene l’arabo e si vestono il mantello come le musulmane”. Infatti Varvaro avverte che è sbagliato insistere sull’identità di fede, razza e lingua (1981: 144) perché la persecuzione religiosa non comportò l’abbandono della lingua, anche se nelle tre isole si ebbero esiti diversi di questo problema. Non solo a Malta dove, dopo Giliberto non si hanno più notizie di residenti musulmani, ma anche in Sicilia l’arabo, forte del prestigio che continuò a godere fino al regno di Guglielmo II, sopravvisse all’estinzione dell’Islam che seguì le espulsioni decretate da Federico II dal 1222 al 1249, rimanendo la lingua d’uso degli Ebrei siciliani (fino alla loro espulsione nel 1492) e forse anche di alcuni gruppi isolati in luoghi appartati (Varvaro 1981: 167). I più importanti di questi luoghi appartati furono ovviamente Malta e Pantelleria.

    Mentre a Pantelleria si conservò una popolazione arabo-musulmana fino al 1490, che era esclusiva fino al 1270-80 e gelosa della propria autonomia giuridica, e mentre nel quattrocento convivevano pacificamente tre fedi (“habitatorum insole nostre Pantillarie tam christianorum quam saracenorum et judeorum”; Bresc 1999), a Malta la cristianizzazione precoce non comportò l’abbandono della lingua parlata benché si adottasse il siciliano accanto al latino come lingua scritta e “alta”. Sembra che per l’identità europea dei maltesi bastassero la fede cristiana e la fedeltà alla dinastia siciliana ma la lingua, malgrado l’imbarazzo della sua associazione con l’altra sponda (del nemico della fede e degli autori delle razzie) serviva a rafforzare il senso spiccato di autonomia locale reclamato e praticato da quella che Bresc chiama la “noblesse civique” che si contrapponeva alla “noblesse aristocratique” (2000: 150). Il clero e il notariato, gelosi del decentralismo ecclesiastico e amministrativo, si stringevano attorno al culto paolino che conferiva alla comunità il prestigio dell’antichità e ribadivano il rifiuto dell’infeudazione, e coltivavano la lingua locale quale utile strumento nel culto e nella pratica quotidiana, p. es. nella predicazione e nella lettura in lingua materna dei contratti redatti in latino o in siciliano (cfr. Bresc 2000: 150-155). I maltesi svilupparono una percezione decisamente autonoma della loro lingua perché, mentre gli stranieri la definiscono “africana” (Quintinus 1539), “parlar saracino” (Fazello 1558), “lingua degli Africani” (Viperano 1567), “Carthaginese” (Porcacchi 1572), “More” (Thevet 1575), “Araba” (Leoni 1582), i maltesi insistono sulla sua individualità: “in lingua Maltensi” (1436, 1525), “in lingua nostra maltensi” (1496), “Lingua Maltensium” (1507), “in lingua melitea” (1540), “in melivetana et vernacula lingua” (1554, 1560), anche nella presentazione del più antico testo poetico, la Cantilena scritta nella seconda metà del secolo XV: “quam lingua melitea hic subicio”.

    In entrambe le isole i primi contatti degli abitanti arabofoni con le lingue romanze avvennero con i primi immigrati latinofoni. A Pantelleria si attesta la presenza di catalani e siciliani nel XIV secolo, e di genovesi, lombardi e spagnoli nel XV. Questi formavano una piccola comunità che risiedeva attorno al castello (erano solo 26 famiglie nel 1376-77) ma non si sa se avessero formato un dialetto peculiare o se avessero prescelto una delle lingue, anche se sembra logico aspettarsi che avessero scelto il siciliano, illustre o regionale. Il fatto sta che Bresc trova che nel quattrocento “la base della società e dell’economia isolana era dunque il contadino musulmano” che viveva nei casali (1999). I rapporti tra i latinofoni, che erano legati soprattutto alla guarnigione, e i contadini arabofoni del resto dell’isola non dovevano essere molto stretti, e il centro innovativo dovette essere a lungo isolato dalle frazioni. Questa separazione non poteva non avere effetti linguistici, come pure l’autonomia giuridica e religiosa. Inoltre, per la conservazione dell’arabo, fu importantis-simo il fatto che le attività commerciali che legavano il centro innovativo, cioè il porto, con i casali erano in mano agli ebrei: l’importazione di grano e della merceria (ferro, acciaio, ecc.) e l’artigianato. Siccome gli ebrei erano arabofoni non potevano essere canali di diffusione di una lingua romanza, sicché non sorprende notare che i contadini panteschi continuarono a parlare arabo fino al secolo XVII (Bresc 1986, II: 623, segnala che nel 1670 un mercante francese che visitò l’isola dovette ricorrere a un interprete maltese per conversare con gli abitanti) e al XVIII (Bresc 2000: 142).

    Nello stesso periodo a Malta la latinizzazione avanzava lenta ma sicura, però veniva progressivamente assorbita nella lingua nativa. Come a Pantelleria, a Malta i primi contatti con i latinofoni si effettuarono nella zona del porto, attorno al Castello a Mare. Nel 1530 il borgo dietro al Castello ospitava appena un migliaio di abitanti in “poche capanne misere” (Quintinus), ma quando vi si stabilì l’Ordine di San Giovanni vi portò di colpo 3000 persone tra Cavalieri, soldati, marinai, e altri servizi. Contrariamente a quanto accadeva a Pantelleria, i Cavalieri attirarono alla zona del porto un influsso crescente di maltesi dalle zone interne. Questi abbandonavano i campi per le condizioni migliori offerte dalla costruzione delle tre città e delle fortificazioni sul lato del Castello a Mare. Iniziò così l’affollamento verso le zone del porto che si moltiplicò con la costruzione della Valletta, una città edificata ex novo, su un colle disabitato, con palazzi, chiese, strade, giardini e le imponenti fortificazioni. La popolazione delle zone del porto crebbe da quel migliaio del 1530 a 38.000 nel 1797, mentre la popolazione di tutta l’isola aumentò da 17.000 a 96.000 in 270 anni. Questo processo demografico è molto diverso da quello che si verificò a Pantelleria, dove la popolazione rimase bassa, con 4.600 abitanti nel 1757 e circa 6.000 nel 1798, e dove gli abitanti delle frazioni continuarono a lungo a fare una vita isolata (Tropea 1975: 227). Lo spostamento dei maltesi dalle campagne verso il porto fece sì che i forestieri, che inizialmente erano tre volte più numerosi, fossero presto superati dai nativi, i quali assorbirono influenze soprattutto lessicali senza essere soverchiati. In questo modo la lingua originariamente araba di Malta, che già si era sganciata dal contatto con l’arabo classico da tre secoli, iniziò a romanizzarsi sempre più e a formare una koiné cittadina che dal 1590 al 1797 era usata dal 28% al 39% della popolazione intera, guadagnandosi il prestigio e la standardizzazione, specie con i primi studi grammaticali e le prime esercitazioni letterarie. Fu infatti questa varietà della città, o più correttamente della zona del porto, che divenne il modello per tutta l’isola (dove si parlavano varietà atte a uno stile di vita primitivo, fondamentalmente legate alle attività agricole) prima sul livello parlato, poi su quello letterario, e nell’Ottocento anche nelle scuole. Il contatto continuo con l’italiano, nella situazione di diglossia tra la lingua formale, colta, (scritta) e la lingua informale (parlata), la arricchì di quel tanto che bastava per permetterle di tenere il passo con gli sviluppi sociali e culturali, ed evitare che si sentisse non più utile o idonea, il che avrebbe comportato il suo abbandono a favore dell’italiano. Quando più tardi arrivarono la scolarizzazione per tutti e i mezzi di diffusione, il maltese cittadino (standard) aveva una vitalità troppo forte per essere soppresso.

    A Pantelleria il passaggio dalla lingua araba del medioevo siciliano al dialetto siciliano di tipo trapanese non è stato spiegato, malgrado il fatto che sia un fenomeno relativamente recente. Doveva avvenire tra settecento e novecento e poteva essere stato determinato da una precisa e conscia politica linguistica, in vista dell’annessione al Regno delle due Sicilie e all’Italia Unita (mentre Malta restava autonoma sotto i Cavalieri che, non identificandosi con nessuna delle nazioni dei suoi membri, non badarono a effettuare una politica linguistica). Poteva essere stato il risultato naturale di un processo di spopolamento e di ripopolamento, forse connesso con l’estinzione dell’Islam e la partenza degli ultimi mudejar. Bresc (1999) ipotizza una “strada della latinizzazione, più che della sicilianizzazione” frutto di una sintesi di latinofoni provenienti da varie parti dell’Italia e della Spagna che elabora una lingua e una cultura orale in cui confluiscono anche tecniche, oggetti, parole di un mondo musulmano e arabo in via di assorbimento”. Però si può considerare una spiegazione leggermente diversa, cioè quella della formazione di due comunità diverse, quella cittadina dominata dai latinofoni (parlanti siciliano) e quella contadina arabofona. Mentre la prima cresce la seconda resta inferiore, divisa in comuni ancora più piccoli, per cui la prima domina incontrastata. Dopo un periodo di bilinguismo, la comunità arabofona usa sempre più spesso la lingua romanza finché nella parlata quotidiana gli elementi romanzi soverchiano quelli arabi, e si mantengono solo i termini legati alla vita primitiva, contadina e locale. Tale ipotesi è più consona con la tesi con cui Varvaro spiega la scomparsa dell’arabo dalla Sicilia (1981:170). Poiché il risultato a Pantelleria è stato uguale a quello della Sicilia, e non come quello di Malta, si può concludere che a un certo punto, anche se qualche secolo più tardi, si sarà verificata a Pantelleria una forte “dinamica spaziale e sociale” che “avrebbe scosso alle radici la struttura sociale, economica e culturale” delle comunità rustiche di lingua araba, simile a quella che Varvaro vede in Sicilia. Questa dinamica poteva essere appunto la formazione di una comunità cittadina latinofona, separata, numericamente superiore e dominante, che avrebbe determinato il crollo dell’arabofonia. Invece a Malta un fenomeno simile non si è avverato e per conseguenza l’arabofonia è sopravvissuta.

    Nell’Appendice I si riportano alcuni esempi di corrispondenze lessicali tra il pantesco e il maltese. Si tratta generalmente di termini che riguardano il terreno rurale (ggimémi, háma, kúddia), abitazioni rustiche (ddukkéna, girbéci, harbé, kénni, rrunkúni), flora, fauna e insetti (ballútu, ddukkára, hurríhi, lillúca, sikáru, ggilárdu, kardéna), oggetti tradizionali o arcaici che includono l’abbigliamento e gli attrezzi (bbarnúsu, zzarbúni, cákicáki,hasíra, huggéri, kúbba, rruddéna, tácinu). È curioso notare che numerosi termini hanno connotazioni spiacevoli (come i già citati girbéci, ggimémi, háma, harbé, kardéna e súsu, zzíbbula), alcuni indicano malattie o caratteristiche fisiche particolari (hazzésa, mahótu, minéci, nnókkulu, tába). Inoltre si osserva che alcuni termini che a Malta sono riferiti anche a persone, a Pantelleria si usano solo con riferimento ad animali: árfa, hanéhi, harráci, kallútu. La connotazione dell’arretratezza viene esemplificata con zzarbúni che indica solo una scarpa sformata e logora, non come a Malta dove zarbun denota ogni tipo di calzatura, anche la più elegante. Tutto sommato si tratta di un lessico tipico di uno stile di vita chiuso, legato al passato, che caratterizza una comunità in via di esaurimento.

    Queste corrispondenze indicano che lo strato che era quello principale in entrambe le isole dall’XI fino al XV secolo (se non fino al XVIII) divenne a poco a poco sostrato a Pantelleria, sotto la pressione di un nuovo modello di vita che dal centro cittadino (il porto) si diffuse in tutta l’isola. L’ipotesi più realistica sarebbe quella di vedere un’immigrazione latinofona molto forte che resta concentrata sul porto, soverchiando la comunità degli arabofoni che vi abitavano, e che a poco a poco esercita il proprio prestigio sugli abitanti delle frazioni quando questi si trovarono in minoranza. In questo caso si vedrà che l’influenza del porto fu molto più forte a Pantelleria che a Malta. La conferma verrebbe da un’analisi dei cognomi nei registri parrocchiali, specialmente battesimali o matrimoniali, un’impresa difficile a causa della distruzione dei registri dell’anagrafe nella rivolta del 1820 e durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, ammenoché non esistano copie o documenti analoghi a Trapani o Palermo. Per quanto riguarda la descrizione tecnica della nuova parlata, non so se esistono elementi per giustificare l’ipotesi di una koiné romanza esclusiva a Pantelleria, come accenna Bresc; sarebbe forse più logico aspettarsi una forma di siciliano regionale proveniente da una zona vicina che si innesta appunto sulla lingua parlata precedentemente, ma questo dipenderebbe dalla provenienza della maggioranza degli immigrati e/o dai contatti, stretti e continui, commerciali e amministrativi, con la Sicilia occidentale. Tropea ha espresso il parere che nell’isola “non si sia verificato un generale livellamento linguistico” per causa del “quasi assoluto isolamento” dei contadini che avevano contatti piuttosto rari col centro cittadino e ancor più con le altre frazioni (1975: 226-7).

    Nell’Ottocento e nel Novecento le situazioni linguistiche di Malta e di Pantelleria divergono ancora di più. A Pantelleria la presenza di centinaia di coatti certamente rafforzava la diffusione della latinizzazione dal 1820 in poi (nel 1890 erano ben 600), e secondo Tropea questi hanno aggiunto una patina lessicale napoletana. L’amministrazione italiana dopo l’Unità, la presenza dei militari nel periodo bellico, i 10.000 operai forestieri (siciliani o italiani) che vi stazionarono per la costruzione della strada perimetrale e dell’aeroporto, con l’inevitabile numero di matrimoni con ragazze pantesche, rafforzarono ancora di più la latinizzazione (sicilianizzazione e italianizzazione), se non fosse già compiuta, mentre nello stesso periodo Malta subiva sforzi sempre maggiori tesi a sostituire l’italianizzazione con l’anglicizzazione. Anche Malta ospitò un numero sostanziale di esuli italiani, liberali prima, borbonici dopo, alcuni anche illustri come Ruggero Settimo, Francesco Crispi, Gabriele Rossetti, Michele Amari, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, e di questo migliaio alcuni si stabilirono definitivamente, ma la loro presenza rafforzò solo la posizione dell’italiano come lingua di cultura. La posizione del maltese come lingua parlata non fu intaccata, anzi le loro idee romantiche e nazionalistiche promossero l’elevazione del maltese a lingua letteraria (Friggieri 1976, Brincat 1985, Friggieri 1986). Dopo settant’anni in cui continuarono a usare l’italiano come lingua ufficiale (Brincat 1998), le autorità britanniche si preoccuparono negli anni dell’Unità italiana e scatenarono una estenuante lotta politico-linguistica che si accanì con l’avvento del fascismo. La questione della lingua a Malta fu un’esperienza traumatica, combattuta per circa sessant’anni, e divise l’isola in tre schieramenti, gli imperialisti che favorivano l’adozione dell’inglese, i colti e specialmente la Corte di Giustizia e la Chiesa che volevano conservare l’italiano, e il popolo che coglieva l’occasione per rivendicare il riconoscimento della propria lingua. Come si sa finì con un compromesso nel 1934, cioè effettuando la sostituzione dell’italiano con l’inglese come lingua ufficiale e la concessione dello stesso status al maltese.

    A questo punto possiamo tentare di rappresentare graficamente la stratificazione dei due sistemi linguistici sulla base delle testimonianze lessicali, collegando ogni strato a un periodo storico:

 

Tabella I

    La stratificazione del maltese e del pantesco

STRATO
PERIODO
MALTA 
PANTELLERIA 
adstrato 2
 1800
inglese
/
 adstrato 1
 1530
 italiano
italiano
 superstrato
 (1091)-1184-1800c
 siciliano
 /
 strato principale
 (870?)
1500c / 1700c
 arabo(di Sicilia)
/
 /
siciliano
sostrato preromanzo
 700/835-1500/1700
/
 arabo (di Sicilia?)
535 – 870
bizantino? (-870)
bizantino ? (-835)
 sostrato prearabo
218 aC-476 dC
latino ?
punico ?
650 aC-60? DC
latino ?
punico ?

 

    L’esercizio comparativo lessicale tra il dialetto pantesco e la lingua maltese ha rivelato che le concordanze sono dovute non a una influenza reciproca bensì a ciò che è pervenuto da un’epoca più antica. Vediamo adesso quali conclusioni permetterà di raggiungere l’esercizio comparativo sul livello fonetico e fonologico. Prima di tutto esamineremo l’elemento arabo e vedremo che il maltese e il pantesco hanno perso la maggior parte dei suoni più tipici dell’arabo tranne la h aspirata (un tratto che in Sicilia si è conservato soltanto in una piccola area agrigentina occidentale; Ruffino 1997: 13). Effettivamente il maltese ha conservato pure l’occlusiva glottale sorda che la scrittura ufficiale rende con la q, e che nell’alfabeto fonetico internazionale si rende con [’], un suono che in italiano si sente quando si pronunzia con enfasi una parola iniziante per a-, per esempio anche [’ánke], ma questo suono è sconosciuto al pantesco. I suoni distinti della fricativa postvelare (Ë ), faringale (Ê ) o laringale (h) dell’arabo sono state ridotte nel maltese a un’unica h-, la fricativa faringale sorda, la quale non mostra segni di cedimento. Al contrario a Pantelleria questo suono era già in forte calo negli anni sessanta, malgrado il fatto che fosse ancora produttivo “nella lingua dei vecchi o di quelli del contado” nell’ipercorrezione di g”g”ahánti e ng”ahári per il sic. g”g”akánti, ag”g”akátu (Tropea 1988: LVI, n.184) proprio perché era diventato un marchio sociale: la pronuncia con l’occlusiva velare (k) godeva il prestigio del centro cittadino, innovativo, mentre la fricativa faringale (h) si pronunciava solo nelle frazioni e aveva connotazioni rustiche e arretrate. Oggi, a quarant’anni di distanza dalle ricerche svolte da Giovanni Tropea e Anna Rosa D’Ancona, la preferenza per la pronuncia cittadina prevale ovunque. Un’altra tendenza curiosa che distingue la pronuncia maltese da quella pantesca nelle parole comuni di origine araba riguarda l’accento: il maltese preferisce l’accento sulla prima sillaba mentre il pantesco lo sposta sulla seconda come si vede negli esempi seguenti:

    Tabella II

    Lo spostamento d’accento

pantesco: hanéhi, harbé, hasára, mahótu, némusa, minéci, rraháli

maltese: hànek, hérba, hàsra, màhta, nemùsa, némex, ràhal

    Le divergenze fonetiche non riguardano soltanto l’elemento di origine araba ma anche quello di origine siciliana. Così come ha ridotto al minimo i suoni tipici dell’arabo, il maltese è rimasto pure esente dai suoni più tipici del siciliano: le cacuminali o retroflessione di -LL-, -TR-; l’assimilazione dei nessi -ND-, -MB- che diventano -nn-, -mm-; la mediopalatale g”g” dalla palatale laterale -LJ-, -GL- È È ; anche se ha conservato il vocalismo e, almeno sporadicamente, alcuni tratti consonantici (v. Brincat 1980). Al contrario il pantesco di oggi palesa tutti questi tratti. Il contrasto delle corrispondenze maltesi e pantesche non può non richiamare l’affermazione di Varvaro che l’assimilazione di -ND- e -MB- è un’innovazione fonetica avvenuta nel secolo XVI, che la pronuncia [ggj] per la palatale laterale “non pare anteriore al 1500” e che “il siciliano medievale non conosceva retroflessione di -ll- (Varvaro 1988: 209). Per la storia del siciliano è importante una terza testimonianza, quella del pantesco. La forma odierna del dialetto di Pantelleria presenta tutti questi tratti, come si vede in Tropea 1988, Introduzione, sezioni 12 (dd), 13 (g”g”), e nelle voci rappresentative a» » rítta, beddu, c”c”áppári, píg”g”ári, áî ð è iku, a-ð ð è uppé» » u, bannéra, gámma. Però la situazione è un po’ più complessa perché si registrano pure voci con tratti contrastanti, spesso producendo doppioni, come in bbéllu, ¹ ¹ appári, È È uÈ È uléna (g”g”ug”g”uléna), kuíndici (kuínnici), gambúsa. La presenza di dd non retroflessa è interpretata da Tropea come probabile ipercorrettismo.

    I doppioni potrebbero risultare da influenze di provenienza varia (p. es. genovesismi o napoletanismi) ma è più probabile che indichino differenze diacroniche, specialmente quando caratterizzano la parlata del centro cittadino in contrapposizione alle parlate delle frazioni. Nel primo caso saranno innovazioni diffuse a scapito dei tratti conservativi. Tale è senza dubbio l’opposizione tra i suoni dialettali che continuano il latino CL e PL: nelle campagne si adopera la fricativa mediopalatale sorda º (º áttu, º úmmu, ‘piatto, piombo’) e l’affricata mediopalatale sorda ¹ (¹ ¹ appári, ¹ ¹ u ‘più’, ¹ ¹ ikkuláta) mentre nel centro cittadino si usa l’affricata postpalatale c” (c”c”áppári, c”c”u ‘più’, c”c”ána,). Tropea notò una sfumatura polemica nell’orgoglio espresso dai marinai e dai pescatori per il fatto che non pronunciano mai la mediopalatale, la quale viene associata con il mondo contadino. Dunque la mediopalatale è un tratto conservatore e rispecchia uno stadio più antico, il che viene confermato dal fatto che concorda con aree isolate o periferiche come la Sicilia sud-orientale e Licata e Palma di Montechiaro nell’agrigentino orientale e come Malta, che conosce solo le forme palatali avendo fuso la fricativa mediopalatale sorda e l’affricata mediopalatale sorda : ¹ avétta, ¹ ar, ¹ att, ¹ anga (‘manzo’), ¹ omb, min¹ ott (‘rocchetto di filato’), voci che corrispondono alle forme pantesche contadine: º ávi, º áru, º áttu, º ánka, º úmmu, mín¹ a.

    Più complicata è la situazione della corrispondente sonora g”g” per È È : anche questo tratto concorda con la Sicilia sud-orientale e più specificamente con l’area ragusana (Tropea 1988 p. xvii, nota 57, e p. xxxiii), ma questa volta caratterizza sia il dialetto medio del centro sia la parlata delle campagne che lo estendono anche alle voci di origine araba o italiana con È . Eppure i pescatori lo rifiutano e dicono spiaÈ È a, garÈ i, noliÈ È ari contro spiag”g”a, garg”i, e lo estendono a qualche altro termine, come È È iÈ È uni, e piskaÈ È ina al posto di g”g”ig”g”uni, e piskag”g”ina per ipercorrettismo (ibid. p. xv n. 47). Nel maltese l’affricata postpalatale sonora è sconosciuta. Sembra logico concludere che la sonora, essendo penetrata in tutte le aree del pantesco, sia penetrata in uno stadio anteriore rispetto alla sorda.

    La contrapposizione dell’affricata postpalatale sorda alla fricativa mediopalatale sorda e all’affricata mediopalatale sorda è ritenuta da Tropea importantissima perché è l’unica di cui gli abitanti dell’isola hanno chiara consapevolezza (ibid. p. xviii). Però l’illustre dialettologo catanese registra tre altre corrispondenze fonetiche, di cui una è già stata discussa sopra, cioè la fricativa laringale delle voci di origine araba. Per conseguenza ci restano due tratti da considerare, la pronuncia del dittongo AU in posizione iniziale e interna e l’assimilazione o meno di ND e MB. Il mantenimento di -au- è definito normale nella Sicilia sud-orientale ma gli esiti di AU nell’isola di Pantelleria sono diversi anche se tutto sommato Tropea afferma che -o- è tipico del contado mentre -au- e -a- caratterizzano il centro urbano senza dimenticare che ci sono molte forme con -o- che sono comuni a tutta l’isola. Qui dunque sembra che la forma in -au- sia innovativa, mentre a Malta viene conservata in awrata, awricci, awrina (per orata, orina), e awwissu e awwista (per agosto e aragosta, dunque deriva dal dileguo di -g- intervocalica; cfr. il sic. alausta). L’unico esempio che corrisponde è awri¹ ¹ i, il quale a Malta si usa soltanto come termine tecnico nell’attrezzatura del mulino tradizionale. Per conseguenza la testimonianza è troppo scarsa e non permette conclusioni scientifiche. All’assimilazione o meno di ND e MB e alla sua importanza per la tesi di Varvaro ho già accennato sopra. Qui mi limito a inquadrare il fenomeno nella stratigrafia dell’elemento siciliano/italiano del pantesco ricordando che Tropea attribuisce l’assimilazione agli abitanti del contado (gránni, gámmiru) mentre le forme con nd e mb caratterizzano la parlata del centro cittadino (1988 p. xviii). In questo caso il tratto indicherebbe che la forma dialettale siciliana è penetrata in Pantelleria più tardi che a Malta e che la forma non assimilata è da considerarsi un’innovazione, dunque un italianismo.

    Dal punto di vista del lessico sono molte le osservazioni interessanti che la comparazione, anche sommaria, può offrire. Forme con la sincope vocalica come mértu, spírtu, forme con corrispondenze parziali come p. árka(attraverso *álika) e m. álka, zzibíbu (con una b semplice anziché doppia) m. zbib, p. kuverta m. gverta, p. duzzána m. tuzzána, forme con agglutinazione o deglutinazione dell’articolo come p. líttra m. l- íttra, p. u¹ ¹ áli m. nu¹ ¹ áli, e specializzazioni semantiche come p. firdíkula m. artíkla ‘anemone di mare’ (Tropea l’attribuisce alla conservazione del termine arabo p. hurríhi m. hurríeq), p. karùsu m. karus ‘salvadanaio’ ma non ‘ragazzo’ in entrambe le parlate, p. pér¹ a m. pér¹ a ‘corda per stendere la biancheria ad asciugare’, con lo sviluppo del verbo m. perre¹ ,‘stendere all’aria’, fig. ‘mostrare’. È curioso anche notare oggetti rassomiglianti ma con usi diversi e che portano nomi quasi identici come la ninfa di Pantelleria (che porta solo oggetti appesi in alto al centro della stanza) e la linfa di Malta che è un lampadario, anche dei più lussuosi, mentre altri sono praticamente identici ma portano nomi del tutto diversi, come il pantesco ddammusu ??? e la girna maltese, che sono piccole capanne nei campi dove i contadini tengono attrezzi o si rifugiano dal sole o dalla pioggia.

    Le corrispondenze non si limitano ai livelli fonetico/fonologico e lessicale/semantico. Anche la morfologia permette confronti interessanti, a cominciare dall’inesistenza del passato prossimo e dal modo di rendere il trapassato prossimo mediante il passato remoto preceduto da era (Tropea 1988, p. lxxvii). Anche il maltese ha solo il perfetto e rende il trapassato con kien ‘era’, ma con la differenza che mentre nel pantesco era è invariato, nel maltese la forma che corrisponde all’imperfetto italiano (kien = era) è un ausiliare regolare che viene coniugato secondo la persona, singolare e plurale, e nella terza persona anche secondo il genere maschile o femminile: kont ktibt, kont ktibt, kien kiteb, kienet kitbet, konna ktibna, kontu ktibtu, kienu kitbu (m.+ f.), (*ero scrissi, eri scrivesti, era scrisse (m.), era scrisse (f.), eravamo scrivemmo, eravate scriveste, erano scrissero) mentre nel pantesco si coniuga solo il passato remoto del verbo che sostituisce il participio passato: era º ámá, era º ámásti, era º ámáu, era º ámámmu, era º ámástivu, era º ámáru.

    Concorda anche l’uso dell’indicativo presente dove in italiano si usa l’infinito. Gli esempi riportati da Tropea a p. xliii concordano con l’uso del maltese di ‘andare’ come ausiliare per il futuro e di ‘andare/venire’ per l’imperativo, sempre con il presente anziché con l’infinito.

    Osserviamo questi esempi di Tropea:

 PANTESCO Traduzione letterale in italiano  MALTESE 
vaiu vídu vado vedo sejjer nara
vaiu mán¹u vado mangio sejjer niekol
vennu mán¹u vengo mangio gej niekol
veni travág”g”a vieni lavora ejja ahdem
va vídi va vedi mur ara
va ioka va gioca mur ilghab
va kúrkiti va coricati/dormi mur orqod
va sséttiti va siediti mur poggi

    Il futuro nel maltese, come nel pantesco, non ha una forma sintetica (un tratto che condividono con tutta l’area italiana meridionale), e viene reso con il presente (dumáni mmárku, *domani imbarco, ‘domani parto’, ghada nitlaq) o con forme perifrastiche con ‘avere’ (dumáni ai-a mmarkári, *domani ho da imbarcare / ho da partire, ghada ghandi nitlaq).

    Interessante è anche l’uso di volere col valore di ‘dovere’: stu múru si vóli autig”g”ári (*questo muro vuole essere reso più alto), dan il-hajt irid joghla; si voli nnikilíri (*si vuole rimpicciolire), irid jickien; si voli priiún¹ iri sali (*si vuole aggiungere sale), trid izzid il-melh (nel maltese l’impersonale si rende con la seconda persona singolare, *tu vuoi aggiungere sale, ‘si deve/ bisogna aggiungere sale’); sokk-è scríttu lég”g”iri si vóli (*ciò che è scritto vuole essere letto, ‘dev’essere letto’), dak li hu miktub irid jinqara/trid taqrah; lu minzinnáru vol-avíri bbona mimória (*il bugiardo vuole avere buona memoria), il-giddieb irid ikollu memorja tajba. Infine, come nel maltese, mancano nel pantesco il congiuntivo presente, il condizionale presente, il participio presente, mentre è scarso l’uso del gerundio poiché l’azione durativa viene resa con i pronomi personali atoni seguiti dal verbo al presente o all’imperfetto (ie lávu, niatri man¹ ámu, ‘sto lavando’, ‘stiamo mangiando’) (Tropea 1988, p. xlii, lxxxii). Nel maltese l’azione durativa viene resa con qieghed, ‘stare’, coniugato o nella sua forma sincopata e invariata qed come in qieghed niekol / qed niekol, qeghdin nieklu / qed nieklu, e dunque sembra modellato sull’italiano e allora sarà un tratto innovativo.

J.M.B. docente di linguistica italiana all’Università di Malta

 

 

 

Appendice

 

á í ó ú º ¹ È ë ü » î ð è

 

(a) il settore agricolo

àrfa – grido che si rivolge agli asini per far loro alzare il piede
érfa – alzare (in generale)
cammariàri – rimboccare le maniche della camicia o l’esterno dei pantaloni
xàmmar – (come sopra)
ddukkèna – sedile di pietra addossato al prospetto delle abitazioni di campagna; dikkiena – (uguale)
girbéci – luogo chiuso dove si custodiscono pecore e capre; luogo sudicio e disordinato
gorbog – edificio o recinto per animali; abitazione misera
ggimemi – terreno lasciato incolto; gmiem – (uguale)
hàma – fango; hàma – melma
harbé – casa malandata, semidiruta; hèrba – distruzione
kénni – posto riparato dal vento e esposto al vento; kénn – rifugio, kenni (agg.) – posto riparato
kùddia – collina; Gudja – toponimo di un paese in collina
rrunkùni – angolo della stanza, angolo, canto, luogo appartato; ròkna – (uguale)

 

(b) flora, fauna, insetti

ballùtu – quercia, ghianda: ballùta – quercia
ggilardu – grillo campestre, cavalletta; guràt – (uguale)
hurrìhi – ortica; hurrieq – (uguale)
ddukkàra – fico selvatico; tin tad-dukkàrtipo di fico molto buono
lilluca – fiorrancio, o calendola; lellux – calendola
sikàru – uccelli rapaci come il falco e lo sparviero; séqer – falco
kardéna – zecca che si attacca specie a pecore e capre; qurdìena – (uguale)

 

(c) malattie o caratteristiche fisiche particolari

hazzésa – impetigine; hzieza – (uguale)
mahòtu – moccio; màhta – (uguale)
minéci – lentiggini; némex – (uguale)
nnòkkulu – riccio di capelli; nokklu – (uguale)

 

(d) oggetti tradizionali o arcaici

bbarnùsu – mantello; barnuz, barnuza – cappuccio
càkicàki – battola; cekcieka – (uguale)
hasìra – stuoino per pulire le scarpe prima di entrare in casa
hasìra – stuoia appesa a porte e finestre per proteggere dal sole
huggéri – davanzale del forno, hògor, hògra – davanzale di finestra
kùbba – gomitolo di spago o di filo che non ha forma di palla
kòbba – gomitolo di spago o di filo che ha forma di palla
kùlla – recipiente panciuto di terracotta per l’acqua qolla –(uguale)
rruddèna – attrezzo per la filatura o la tessitura con grande ruota
riddiena – attrezzo c.s., mulino a vento, mulinello giocattolo
sùsu – tritume prodotto dal tarlo nel legno; sùsa – il tarlo
tàba – macchia sulla pelle, su indumenti; teba’ – (uguale)
tàcinu – tegame di terracotta, basso, con un manico
tàgen – padella (in antico tigàn, come     sopra)
tifuràri – cominciare a bollire; tfur – (uguale)
zzarbùni – scarpa sformata e logora; zarbùna – scarpa
zzìbbula – spazzatura, immondizia; zìbel – (uguale)

(e) animali

hanéhi – gengivite deqli equini; hànek – gengiva
harràci – indocile, di asino;ahrax -crudele, violento, detto anche di persona
kallùtu – cacherelli di capre o conigli; qallùt pezzo di sterco sodo, cilindrico, anche umano
sprattari – saltar fuori o in avanti con irruenza (detto di animali o fig. di persona); sfratta – uguale, detto spec. di cavalli e persone, anche transitivo, rovinare un affare, un gioco, ecc.
zzuzzuniàri – ronzare di api, zanzare, ecc., sibilare di trottola, fischiare degli orecchi; zanzan – (uguale)

 

(f) termini marinareschi e pesci

bbirkàcu – sciarrano; burqax – (uguale)
bbommarìnu – la foca mediterranea; bumarìn – (uguale)
firdìkula – anemone di mare; artikla – (uguale)
mmattàri – armare una barca o un bastimento;
mattjatùra – gli attrezzi di una barca da pesca, di una nave
rroci, rroc-i mari – lo spruzzo ; raxx (-il bàhar) – (uguale)

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